Leonardo Alario
Per voce sola
Le forme del canto in Calabria
2008, € 14
Formato 14x19, pp. 88
Esaurito
Affidato all'oralità, e dunque alla mutevole sensibilità di interpreti ed ascoltatori, il canto tradizionale non è mai ripetibile ed ogni sua esecuzione è un unicum. Le novità, attraverso le quali si manifesta, denotano la sua capacità di adattarsi ad ambienti e persone, storicizzandosi in forme solo in apparenza diverse ed autonome, dopo essersi fissato in modo unico nella memoria individuale e collettiva che lo restituisce all'ascolto ogni volta trasformato.
Registrati nell'arco di quarant'anni, nei contesti e nelle occasioni più diverse, e preceduti da brevi introduzioni che aiutano a comprenderne genesi, funzione e struttura, i brani selezionati per questo lavoro attestano la perdurante presenza del canto tra alcune comunità calabresi dove la parola cantata anima un immenso repertorio, che accompagna tutta la vita dell'uomo, e veicola messaggi tra individui e gruppi, cementando il senso di una comune appartenenza.
Nel tempo dell'inarrestabile prevalenza delle immagini sulla parola, la voce continua dunque a levarsi, tra i fedeli in pellegrinaggio o attorno ai fuochi rituali, per farsi strumento di denuncia, modalità di preghiera, comunicazione d'amore, incitazione alla lotta, canale di trasmissione di peculiari saperi e veicolo privilegiato per l'espressione di sentimenti condivisi.
Ascolta il brano Maritum'è gghiut'alla 'Merica
Leggi l'introduzione
Il canto apre varchi nella memoria. Un canto ci giunge improvviso all’orecchio e il cuore sobbalza: l’onda dei ricordi ci travolge e ci sommerge, fatti e persone e luoghi ritornano dal passato.
Il canto è custode della memoria. All’atto della sua nascita (e delle sue successive sanzioni, se si tratta di un canto della tradizione orale) si fa testimone del tempo. Parole, riti, consuetudini, avvenimenti e cose propri di quella temperie storica in esso s’annidano e si conservano e ci testimoniano la visione del mondo maturata da una comunità in un determinato momento della sua storia. È possibile, talora, rintracciare nel canto testimonianze che la documentazione ufficiale ha smarrito o, forse, solo occultato. Il canto si fa, così, anche documento utile a ricostruire la storia dell’uomo.
Il canto, tuttavia, non ha solo funzione di etnofonte. Le sue funzioni sono ben più numerose e complesse e il suo posto, nella vita dell’uomo, è tanto centrale da scandire tutto il suo tempo, sia esso ordinario o straordinario, quotidiano o festivo, gioioso o tragico, tenero o violento, e tutte le fasi, o passaggi, della sua vita, facendosi, di volta in volta, canto di culla, d’amore, di partenza, di lavoro e sul lavoro, di nozze, di morte, e, ancora, grido di protesta, segno d’identità, incitamento alla lotta, medicina della mente, denuncia di condizione, urlo di dolore, soffio di tenerezza.
Della presenza del canto, soprattutto di tradizione orale, che è voce che si fa parola cantata, e dell’oralità, che, se oggi non è primaria in Calabria, è certamente costante, determinando una commistione oralità-scrittura, che incide ancora sulla perenne ridefinizione della nostra stessa mentalità, ho avuto modo, comunque, di trattare altrove[1].
C’è da aggiungere che la trascrizione di un canto, o la sua registrazione su nastro magnetico o su disco, blocca e annulla per sempre la sua naturale fermentazione, poiché di esso si documenta un particolare istante storico della sua perenne evoluzione, ma non la sua storia passata e futura, togliendolo alla memoria e ai bisogni dell’uomo, a cui del tutto appartiene, con cui cammina, si trasforma e si deforma, si rinnova e invecchia, lasciando brandelli, nel suo lungo e intricato andare, e acquisendone altri con cui rammendare e tirare a nuovo tutta la sua forza di possente testimone della presenza dell’uomo, di ogni uomo, nella storia del mondo. E, tuttavia, è necessario documentare il più gran numero possibile di canti, studiarli nei contenuti e nel loro atteggiarsi in quel particolare momento, in quel particolare luogo, in quella particolare comunità, nel suo farsi, cioè, in quel particolare, unico e irrepetibile contesto affinché anche da essi si possano trarre le indicazioni necessarie per tentare di conoscere l’uomo nella sua totalità.
Del canto, dunque, non è tanto la sua vicenda che c’interessa (dov’è nato, chi lo ha concepito, quali correnti culturali lo hanno fatto diffondere di luogo in luogo, quali tecniche mnemoniche e quali occasioni ne hanno favorito la trasmissione di generazione in generazione), ma proprio la sua funzione (che uso ne fa l’uomo, com’è vissuto all’interno della comunità, di quale visione del mondo e della vita si fa testimone, quali stati d’animo denuncia). La valutazione estetica di un canto è, certo, importante, la conoscenza delle sue vicende ci permetterà d’individuare le vie, talora misteriose, che i fatti culturali percorrono, ma sono i suoi contenuti e il suo uso che ci devono veramente riguardare poiché nei contenuti è possibile leggere l’orizzonte e le vicende di una comunità e nell’uso la sua effettiva utilità
nella vita dei singoli e di quell’insieme di persone che condividono la stessa identità culturale e si riconoscono parte di quel determinato territorio, anche quando da esso vivono lontani.
Un canto, per essere di un luogo, non necessariamente dev’esser nato in quel luogo. Può giunger da lontano e trovare accoglienza in quella comunità, la quale, sentendolo conforme alla sua maniera di pensare e di sentire, lo sancisce e lo fa proprio fino a modellarne, talora, la forma nella struttura della propria particolare lingua definita, convenzionalmente, come dialetto. Nel momento in cui una comunità sancisce e riplasma, secondo i propri bisogni, un canto, o qualsiasi altro elemento culturale, disponendone come di cosa personale e secondo le proprie esigenze, quel canto si fa indiscutibilmente il testimone del “sentire” di quella comunità, si fa, cioè, totalmente suo, è suo fino a diventare il distintivo della sua identità, il suo inno, la sua dichiarazione di appartenenza.
È il caso, in Calabria, del canto conosciuto come la Calabrisella. I gitanti calabresi si presentano altrove, cantando la Calabrisella; i gruppi cosiddetti “folkloristici” aprono le loro esibizioni con la Calabrisella; le comunità di emigrati calabresi si riconoscono nella Calabrisella: esso, cioè, è diventato la testimonianza della nostra identità, segno della nostra distinzione e della nostra appartenenza, strumento che unisce le popolazioni calabresi. Eppure questo canto viene da lontano. Esso è il canto narrativo, o epico-lirico, Convegno notturno, che, giunto fino in Calabria, ha subìto un profondo processo di liricizzazione, adeguandosi alla specificità della cultura delle popolazioni calabresi e dando vita a una tradizione del tutto autonoma e così coinvolgente da diffondersi, più di ogni altro canto, in modo direi capillare su tutto il territorio regionale e oltre, in quelle aree culturalmente vicine e territorialmente contermini della Basilicata e della Sicilia. È interessante notare che, accanto alla tradizione delle versioni liricizzate di Convegno notturno, vive quella narrativa, più conservativa, ugualmente diffusa all’interno della tradizione orale, ma non eseguita dai gruppi “folkloristici” che sono stati i veri promotori del successo delle versioni liricizzate del canto, soprattutto dopo la sua trascrizione ad opera del maestro Osvaldo Minervini e subito diffusa tra fisarmonicisti e gruppi di cantori di ogni luogo della Calabria.
La trascrizione-rielaborazione effettuata da Minervini di una versione del filone liricizzato del canto si è sovrapposta alla tradizione orale, impedendone il naturale processo evolutivo, essenziale alla vita di un canto, e decretandone, nei fatti, la fine, ma inaugurando anche una nuova tradizione del canto da quella trascrizione-elaborazione derivata secondo il processo, non nuovo, tradizione orale→diffusione a stampa→tradizione orale. All’interno della tradizione orale delle comunità calabresi continuano ad avere vita propria, anche abbastanza rigogliosa rispetto ai tempi segnati dalla musica imposta dalla cultura del profitto, le altre due differenti diramazioni dello stesso canto, tra cui spicca per la particolare importanza demologica e per l’uso della metafora, quella, il cui incipit così suona:
Di siri vidi la Calabrisella,
tutta bagnata di l’akkua vinìa[2].
Con l’esempio citato ho voluto dire che il canto è di chi lo esegue, indipendentemente dalle sue origini o dalla sua specifica tipologia, rilevante per gli studiosi, ma irrilevante per il cantore, poiché egli lo sente proprio quale testimone del suo sentire in quel momento e in quel contesto, come strumento possente per gridare al mondo la sua presenza, e medicina efficace per sanare, anche solo per un momento, uno stato d’angoscia (solitudine, dolore, smarrimento), che sul piano storico non trova soluzione. La più efficace funzione del canto è, tra le tante (socializzante, rivoluzionaria, distintiva d’identità, dichiarativa di stati d’animo e di sentimenti ecc.), probabilmente, quella terapeutica. Il canto è medicina. Canta che ti passa, si dice. E non a caso un ben noto ed emblematico canto della
tradizione orale messicana dice:
Canta y no llores,
porque cantando se alegran,
cielito lindo, los corazones.
La crestomazia qui proposta vuol essere, attraverso la prova di vigenza del canto di tradizione orale, un certificato di vita di quel complesso insieme di fatti, di idee, di modi di essere e di intendere, di tecniche comunicative, che convenzionalmente chiamiamo ‘tradizioni popolari’, e che, nonostante siano quotidianamente dilaniate, erose, ferite, oggi più che mai, e deformate, trasformate, strumentalizzate, mimetizzate fino a non riconoscersi più e a far cantare un ipocrita o dolente miserere da chi ritiene che i processi di modernizzazione abbiano travolto per sempre la cultura di tradizione orale, dalla cui rilevazione e dal cui studio non sia possibile, comunque, ricavare informazioni per aver chiara nella sua possibile completezza la weltanschauung maturata dalle popolazioni calabresi.
E vuol essere, ancora, la testimonianza sui canti, un piccolo atto di sabotaggio per impedire che altri ci numerino in una cultura-prigione, che si maschera di universalismo. È la testimonianza d’una cultura in fase di affannosa trasformazione e di probabile annientamento, che, tuttavia, resiste sulle corali barricate innalzate dalla voce avvertita, anche se confusamente, dalle giovani gene razioni calabresi come l’estrema possibilità di restare vivi. E le barricate sono i canti, i racconti, i proverbi, a cui fanno ricorso, che riscoprono e riconquistano per il piacere di cantare e di sentir cantare, di raccontare e di raccontarsi, e d’incantarsi a sentir raccontare; i canti (in ispecie), che eseguono nella festa, quando lo sguardo e l’udito e il gesto e il tatto celebrano, in un’unica sensazione collettivamente avvertita, il loro trionfo, e sostanziano il collettivo rito propiziatorio della salvezza, confermando il singolo nella consapevolezza di essere e di sentirsi comunità. Essi rispondono alla voce che chiama, e che, pur dileguandosi, quando tace, fa avvertire la storia tutta presente nell’irrevocabile atto totale del dire, dell’udire e del rammentare (senza un passato da ritrovare nella memoria artificiale ristagnata intatta nella scrittura) e aleggiante verso il futuro sull’onda sonora che si spegne e che suscita il desiderio di rammentare e di fare, e di rispondere ancora alla voce che chiama.
Nessun tentativo, dunque, di ricostruire il patrimonio culturale delle comunità calabresi per pro-porlo e im-porlo. A imporre la (sua) cultura ci pensa già l’industria del profitto, profanando, falcidiando, cancellando le visioni del mondo ritenute nemiche del progetto di mettere a riposo le coscienze delle genti con un servizio culturale (livellato in basso) uguale per tutti, finalizzato alla promozione dell’in-differenza[3], di cui sono apostoli e garanti i mass-media proprio nel momento in cui restituiscono alla voce un corpo da vedere (attraverso la televisione) e da non poter toccare, se non nell’inappagante, per quanto sensuale, immaginazione. E, soprattutto, nessun tentativo di partecipare in qualche modo alla concertata soppressione, paventata da Alvin Toffler, della nuova civiltà, che sta emergendo nelle nostre vite, poiché chi vive la realtà delle comunità emarginate e subalterne, così come oggi si atteggiano, non è terrorizzato dal futuro, al quale, anzi, guarda e s’aggrappa; e lo sguardo al passato non è per lui “una disperata, vana fuga nel passato” per restaurare il mondo morente che gli ha dato i natali4. Al contrario è uno dei modi per capire e per contribuire, con una nuova ‘differente consapevolezza’, all’edificazione d’una invocata nuova civiltà, che non ricalchi, criptizzata da nuovi orpelli, la profonda ingiustizia, che ha, finora, informato di sé la storia dell’uomo.
(…) Non si tratta qui di volgersi al passato per divenirne consapevoli, e di trarre da esso, confermati nella propria identità culturale, ispirazione per il futuro (cosa saggia e giusta del tutto). Si tratta proprio di porsi in ascolto del presente, ché i canti eseguiti, e qui trascritti e proposti, non sono stati sottratti alla sdrucita memoria di assonnati vegliardi, ma, attualmente ancor vivi (ed, evidentemente, ancora funzionali all’economia socio-culturale quotidiana delle popolazioni calabresi), sono stati registrati nell’interpretazione di persone di diversa fascia di età, di diverso sesso, di diversa condizione sociale, di diverso grado di acculturazione, a cui sono stati detti chiaramente i motivi della richiesta e della presenza del ricercatore, influenzandone sicuramente l’esecuzione per quell’improvviso implicito rendersi conto della qualche importanza di ciò che sapevano e per la presenza stessa dell’altro, dell’estraneo, quantunque facente parte, grosso modo, della stessa realtà culturale.
[1] Il canto di tradizione orale nell’Alto Jonio cosentino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998.
[2] Per la questione riguardante origini e tradizione della Calabresella vedi L.R. Alario, Canti narrativi in Calabria, Forni, Sala Bolognese 1990, pp. 96-108.
[3] Nel senso di non alterità, non diversità.
il CD
1. Convegno notturno 6.03
2. Marìtum’è gghjut’alla ’Merica 2.50
3. Kuannu passu da locu 1.33
4. Viu veniri ’nu giuvuinu bellu 0.41
5. Sona, catarra mia 1.53
6. Catarinedda 2.48
7. Invocazione e lode a S. Francesco di Paola 0.37
8. Tiagnu tri rrose 4.34
9. ’A Strina 13.40
10. Janca cchjù di la carta 2.35
11. Santu Nicola 1.30
12. Kuandu Giesu 7.10
13. Killa notti ki cchjova manna 1.38
14. Il riscatto della donna rapita 6.30
15. E vet e vinj 1.30
16. Hapu mal e bëju udhë 2.00
17. Një menat ka klisha dolla 2.23
durata totale: 60.05
Leonardo R. Alario Demologo,fondatore dell'Istituto di Ricerca e di Studi di Demologia e di Dialettologia, ha all'attivo numerose pubblicazione sui canti di tradizione orale e sui rituali festivi.