Massimo Pasquini
La strada, il palco e i pedali
Trent'anni di storie dei Têtes de Bois
2023, € 15
Formato 14x19, 20 foto a colori, pp. 128
In offerta con il 5% di sconto
Tre volte Targa Tenco Interpreti (2002, 2007 e 2015), con all’attivo nove dischi e prestigiose collaborazioni, da Francesco Di Giacomo a Joan Baez, artefici di una rinnovata primavera in Italia di Leo Ferré e della chanson française, presenti da protagonisti a rassegne e festival oltre che per piazze e appuntamenti emblematici, dalla Festa della Musica di Parigi al G8 di Genova, i Têtes de bois in trent’anni di attività hanno animato e promosso una serie impressionante di progetti innovativi e originali che, all’ombra di tanta, ottima musica, hanno mosso sogni e aspirazioni e delineato i contorni di possibili utopie. Gruppo musicale raffinato, organizzatore di eventi mastodontici o interstiziali, creatore di capovolgimenti estetici e linguistici, inventore di marchingegni ecosostenibili, sono stati in grado di animare stadi olimpici e stradine di paese, auditorium e cantine, mezzi di locomozione e pompe di benzina, ferrovie abbandonate e campi di pomodoro.
Il racconto delle loro imprese inizia su un camioncino d’epoca nella centralissima Campo de’ fiori a Roma e termina trent’anni dopo sulle selle dello stupefacente palco a pedali della recentissima Retromarcia su Roma, invenzioni entrambe brevettate. In mezzo, le visionarie, ironiche, commoventi, sorprendenti iniziative disseminate in giro per l’Italia e per l’Europa. Senza ritegno i quattro componenti della band confessano le loro sconclusionatezze, raccontano gli esordi squattrinati, ripercorrono le vicende di Stradarolo, di Avanti Pop, dell’esibizione sul palco dell’Ariston, a Sanremo, degli spettacoli in metropolitana, dei raduni in bicicletta, degli incontri e le collaborazioni con i grandi della cultura e dello spettacolo internazionale.
Un capitolo: Le quattro teste di legno
LE QUATTRO TESTE DI LEGNO
Alla fine ci ritroviamo sempre noi…
Anche se non fosse amore non lo direi
da “E anche se non fosse amore”
Scrivere che i Têtes de Bois sono solo quattro è vero, è storico, è ufficiale, ma è una semplificazione. Lorenzo Gentile e Stefano Ciuffi, batterista e chitarrista, ormai da diversi anni li seguono in furgone con grande passione e compassione. La loro poliedricità artistica e umana ben si lega all’indole delle quattro teste di legno, anzi ha trasformato anch’essi in irriducibili capoccioni.
Nel corso di trent’anni hanno fatto parte della band, per più o meno tempo, parecchi altri musicisti. Alla batteria e alle percussioni Alessandro D’Aloia, Giovanni Lo Cascio, Maurizio Rizzuto, Raffaello Murrone, Carlo Battisti, Gianni Di Renzo, Andrea Bonioli, Luca Fareri, Claudio Mastracci. Alla chitarra l’indimenticabile Rodolfo Maltese e Maurizio Pizzardi, che ha scritto con i Têtes molte canzoni e condiviso tanti umori, amori e progetti musicali. Alla fisarmonica Massimo Fedeli.
Infine, l’elenco incompleto di chi ha messo la voce o qualche altro strumento a disposizione del gruppo: Cecilia Gonnelli, Antonella Franceschini, Fabio Acone, Luca Rocco, Giuseppe Mulè, Paolo Rossi, Daniele Silvestri, Antonello Salis, Mauro Pagani, Gianni Mura, Davide Cassani, Antonio Marangolo, Zia Franca, Monica Demuru, Nada, Luca Mascini/Militant A, Danilo Terenzi, Bruno Continenza, Marco Solari, Paolo Modugno, Antonio Infantino, Rocco de Rosa, Rocco Papaleo, Canio Loguercio, Ulderico Pesce, Claudio Santamaria, Lao Satta, Petra Magoni, Ferruccio Spinetti, I Giganti, Paolo Rossi, Alex Orciai, Marco Parenti, Valeria Rossi, Vasco Brondi, Sergio Godinho, Flavio Brunetti, Francesco Di Giacomo.
Detto questo, da adesso in poi, si parlerà solo dei quattro musicisti DOC di una band super premiata che ha realizzato decine di dischi e si è esibita in centinaia di concerti. Anche se il continente Têtes de Bois è molto più esteso, praticamente sconfinato. E, senza la partecipazione, la condivisione, lo scambio avec fraternité di centinaia di donne, uomini e bambini che hanno fantasticato, ideato, organizzato, scritto, cantato, suonato, recitato insieme a loro, nessuna avventura sarebbe stata possibile e questo libro non avrebbe ragione di esistere. Ringraziamo da subito, tutte in una volta e tutte insieme, le persone che hanno reso possibili le storie, o meglio, le situazioni descritte in seguito. Noi ci limiteremo a seguire in prevalenza le orme di Carlo Amato, Luca De Carlo, Angelo Pelini, Andrea Satta. Se non altro perché, da trent’anni a questa parte, sono stati gli unici individui sempre coinvolti in ogni circostanza.
Angelo
Angelo Pelini crede che la vita sulla terra sia stata creata da una civiltà extraterrestre. Base di partenza del percorso che lo ha condotto verso questa convinzione è il luogo dove è nato e ha vissuto per 33 anni: Via degli Angeli, al confine tra Quadraro e Torpignattara.
Angelo ha fatto il chierichetto, si è diplomato come perito elettronico, ha iniziato a suonare durante matrimoni e funerali, ha studiato pianoforte e composizione ai conservatori di Roma e L’Aquila. Si è diplomato poi al Conservatorio di S. Cecilia in Musica corale e Direzione di Coro e in Composizione. Ha eseguito come pianista o organista concerti di musica da camera, leggera e jazz, ha insegnato, arrangiato, orchestrato e composto musiche di ogni tipo: per teatro, documentari, film, per gruppi orchestrali classici, gruppi rock e jazz, gruppi corali professionali, dilettanti e scolaresche.
Ma ciò che interessa di più ai fini della nostra narrazione è l’aver fondato e diretto per sei anni un coro nella periferia di Roma: una ventina di persone in una specie di sottoscala.
Uno dei tenori che faceva parte del coro era Gesù. Non era un soprannome, si chiamava proprio così. Un giorno questo Gesù telefonò a casa mia per avere informazioni sull’orario delle prove. Rispose mio padre Giuseppe. “Pronto chi è?”. “Sono Gesù, cercavo Angelo”. “Penso che non ci sia, ma ora chiedo a mia moglie. Maria Maddalenaaa” urlò Giuseppe “c’è Gesù al telefono che cerca Angelo”. “Digli che ora non c’è e che quando rientrerà lo facciamo chiamare” rispose mia madre. Fu così che Gesù, Giuseppe e Maria parlarono di un Angelo in via degli Angeli.
Nel corso di quei sei anni di direzione corale Angelo incontrò Andrea Satta.
Avevo appiccicato un post-it su un muro della stazione metro di Porta Furba: “Cercasi cantante per coro e gruppo jazz”. Dopo qualche giorno mi chiamò Andrea. Venne a fare un’audizione a casa mia, in Via degli Angeli. Aveva una estensione vocale di oltre quattro ottave. Entrò nel coro. Era effervescente e sicuro di sé. Era il 1984.
Nei successivi otto anni Angelo e Andrea, oltre a cantare nel coro, si esibirono in feste di compleanno, di matrimonio, di carnevale, di capodanno. Il repertorio da piano bar spaziava da Imagine a Romagna mia. Ma diverse composizioni originali stavano prendendo vita. Per la storia, il primo pezzo in assoluto si chiamava Stop Imagination.
Nell’autunno del 1990 l’apoteosi di questa formazione piano-e-voce. Esibizione al centro dello stadio San Siro, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo compleanno di Pelè, prima della partita amichevole Brasile – Resto del mondo. Il brano si chiamava Dedicato a, testo di Andrea Satta, musica di Angelo Pelini. Dell’evento, trasmesso in mondovisione, resteranno tracce ovunque tranne, purtroppo per loro, nei borderò della SIAE.
Ai Têtes de Bois mancano un paio di progetti: gestire una trasmissione televisiva e suonare in un cortile condominiale con gli abitanti affacciati alle finestre. Uno sfizio personale sarebbe invece quello di far eseguire le mie musiche da una orchestra sinfonica in una sala da concerto. Mentre sto comodamente seduto in platea.
In fase di revisione delle bozze, Angelo Pelini ci tiene - sorprendentemente, incomprensibilmente e pericolosamente - a sottolineare che
Mi sono sempre occupato di tutti gli aspetti amministrativo/economici dei Têtes de Bois, dalle fatturazioni alle rendicontazioni, dai pagamenti alle riscossioni. E non è cosa di poco conto, nel bene e nel male.
Andrea
Andrea Satta propone oggi di fondare una Comune Artistica, nel segno del futuro e dell’instabilità, dove possano convivere i Têtes de Bois con i loro numerosi parenti, amici e affini. È arduo ricercare nelle origini del musicista un collegamento con questo bizzarro desiderio. Ma il tentativo è doveroso.
Innanzi tutto Andrea nacque e crebbe in una famiglia numerosa, popolata soprattutto di sorelle. Da tenere presente - per i successivi sviluppi - che una delle case della sua infanzia affacciava su un deposito di tram, nel quadrante Est di Roma, luogo di transito tra campagna e periferia. Il padre sardo, professore di francese, scampato alla morte in un campo di concentramento tedesco, era rientrato in patria con mezzi di fortuna, portando con sé una fisarmonica verde. La madre lo addormentava leggendo I promessi sposi.
Affollamento, tram, pendolarismo, viaggio, fisarmonica, cultura francese, letteratura italiana. Parecchi ingredienti per delineare il personaggio sono già pronti dall’infanzia. Ma altri se ne aggiungeranno crescendo.
Sin da piccolo ero appassionato di musica. All’età di 10 anni vinsi un Microfonino d’Oro e una Lupa D’Argento, premiato dal compianto presentatore Capitan Zicavo. Inoltre fui selezionato per partecipare allo Zecchino d’Oro, ma la sobrietà familiare fece naufragare il progetto. Ripiegai dunque sulla passione per il ciclismo, ascoltando il Giro d’Italia alla radio e riproponendo la corsa in casa con dei pezzettini di carta. Nel frattempo maturavo una grande passione per i poeti e gli chansonnier francesi, in particolare per Léo Ferré. Ho studiato canto e mi sono iscritto a Medicina.
Ecco quindi che in giovinezza si completa la silhouette del futuro eclettismo esistenziale e artistico: musica, canto, bicicletta, Léo Ferré, pediatria.
Dopo essermi incontrato e aver solidarizzato con Angelo Pelini, abbiamo accettato vari ingaggi da piano bar. Come duo di liscio, nel corso di una festa di Capodanno, abbiamo rischiato di essere lapidati dalla folla a causa della precaria conoscenza delle basi dell’hully gully e della differenza intrinseca tra El Tiburón ed El Meneito.
Ma la storia è continuata con la fondazione dei Têtes de Bois, ai quali ha dedicato la voce, i testi e un bel po’ di follie. Sì, l’avventura è proseguita con le stesse caratteristiche oniriche originarie, ma assai amplificate: affollamenti di concerti, esibizioni su tram, eventi pendolari, viaggi su furgone, spettacoli con fisarmoniche verdi, dischi di chansonniers (in particolare Léo Ferré), transumanze su due ruote e palchi a pedali, mamme da favola in giro per l’Italia.
Le facce più belle che ricordo non sono quelle degli spettatori né le nostre, ma quelle dei tranvieri costretti a giocare con quello che avevano sempre considerato il loro lavoro, dei controllori con il cappello rosso e le facce severe, delle segretarie stravolte dall’improprio e dall’incongruo che abbiamo proposto, dei vigili urbani alle prese con figure geometriche non contemplate nel loro atlante da scuole elementari, un misto di calvario, dovere e tradita passione, da trasformare in gioco. Lavorare con i pachidermi di Atac, Cotral, Ferrovie dello Stato, Comuni, Ministeri vari, destrutturare i rapporti piramidali dentro la linea di comando, una possibilità della vita, un gesto anarchico.
Per non parlare dell’attività di scrittore, poeta, giornalista, inviato sportivo, conduttore, attore, sceneggiatore, autore di dischi e colonne sonore, medico (insignito della medaglia d’oro della Società Italiana di Pediatria).
Un sogno? Se non si può mettere in piedi una comune, potremmo almeno fare domanda per l’assegnazione di una strada di periferia, tutta una strada, case e negozi compresi. I Têtes de Bois, come se facessero parte di una giunta comunale, trasformerebbero il comprensorio in un luogo artistico permanente, metterebbero in scena tutte le sere l’utopia. La fantasticheria individuale, invece, è un concerto chitarra e voce. Semplicemente chitarra e voce.
Carlo
C’è una buona dose di darwinismo culturale in Carlo Amato: l’arte nasce dalla necessità, dalle trasformazioni casuali, dalla liberazione dai vincoli. E quindi dagli arrangiamenti, dalle soluzioni e dalle progressioni. Arte come evoluzione dell’artigianato.
Per esempio: iniziare a suonare a 5 anni l'organo Panther regalatogli dai genitori per poi partecipare alle Sante Messe Beat, cioè concerti-liturgia rock-progressive celebrati nella parrocchia di quartiere.
Altro esempio: studiare solfeggio dal vecchio maestro fumatore del palazzo per poi imbracciare la chitarra classica e quindi il basso elettrico.
Con la chitarra si rimorchiava di più, ma col basso a tracolla passavo intere giornate cavalcando ininterrottamente l'immensa onda emozionale prodotta dal più grande bassista del mondo, Jaco Pastorius.
Nel frattempo, grandi giri in bicicletta, partite di pallacanestro (distorsione al ginocchio destro) e gare di Subbuteo (di cui diventa campione regionale, ma non nazionale, perché la famiglia si rifiuta di pagare la trasferta a Milano).
Ancora adolescente suona dappertutto, con molti dei gruppi jazz fusion della capitale (e anche con Antonello Venditti e Peppino Gagliardi).
Ma l’evoluzione è in agguato. Dopo aver iniziato a sperimentare strumenti di registrazione a casa e in studio, durante il servizio militare finisce in uno dei primi uffici informatici del Ministero della Giustizia, si scopre molto dotato per la materia e decide di restarci.
Con i soldi guadagnati mi sono iscritto al Conservatorio, ho frequentato il corso di Contrabbasso e mi sono diplomato. Per un periodo mi sono dedicato ai concerti con le orchestre classiche, ma il mio entusiasmo era ormai catalizzato dagli strumenti di composizione e registrazione informatici. La tecnologia nelle mie mani era uno strumento musicale ante litteram.
Collabora con l’IBM per la realizzazione di stazioni multimediali per la formazione a distanza, partecipa ad alcuni progetti europei per l’insegnamento nei Conservatori musicali delle tecnologie informatiche per la musica e la sua diffusione in rete. Studia Scienze della Formazione e collabora con il laboratorio multimediale dell’Università Roma tre.
Nel 1989 (o forse nel 1990) Carlo incontra Angelo Pelini, compagno di corso, nei corridoi del Conservatorio di Santa Cecilia.
Nasce il progetto artistico dei Têtes de Bois da cui non riuscirò più a liberarmi e per cui, oltre a suonare, comporre, arrangiare, occuparmi dell’elaborazione del suono attraverso il computer utilizzato come uno strumento musicale, nonché della realizzazione tecnica dei dischi, delle riprese e del mastering, dopo anni e anni di Tetris, sono in grado di caricare il vano bagagli del furgone come nessuno, in religioso silenzio e senza ammettere consigli e intromissioni.
Il processo evolutivo è comunque inarrestabile. Negli anni Carlo realizza e partecipa a una gran quantità di dischi di artisti internazionali, collabora con studi di registrazione, case discografiche e fornisce consulenze sulle tecnologie audio/video.
Però non c’è emozione più forte di suonare sul palco e guardare i compagni negli occhi. Sogno di continuare a scambiare esperienze artistiche fino all’ultimo giorno. Sul letto di morte qualcuno dei Têtes de Bois mi chiamerà per dire: “M’è venuta un’idea”. E poi mi piacerebbe per una volta essere in platea, spettatore di me stesso e degli altri Têtes in concerto.
Luca
“Grazie, veramente grazie, grazie di cuore”. È la frase-contrappeso di fine concerto che stupisce gli spettatori ma che sintetizza egregiamente l’atteggiamento antiretorico, moderato, silenzioso che contraddistingue Luca. Perché lui è davvero pragmatico, realista ed equilibrato. E la frase, pronunciata con estrema serietà, risulta una gentile doccia fredda sul calore del pubblico e sull’esuberanza di Andrea che, fino a pochi secondi prima, animava la sala e strappava gli applausi.
Perché questo siparietto tra il censore e l’avventurista si ripete con regolarità ad ogni nuovo concerto, riunione, avventura, da 30 anni a questa parte? Da dove origina l’indole cauta e riflessiva di Luca?
Inutile ravanare tra i primi anni di vita: nato in pieno boom economico trascorse un'infanzia tutto sommato felice di cui ricorda lunghe estati al sole.
Il suo passatempo preferito era incolonnare lunghe sfilze di numeri uno sotto l'altro. Ogni tanto alzava le gonne di una compagna di scuola. Nessun altro eccesso da segnalare.
Risale a quel periodo il primo innamorante incontro con la musica, cui fece seguito lo studio del flauto dolce e la militanza in formazioni di musica antica.
Inevitabilmente appena messo piede al liceo vengo distratto dalla triade sesso droga e rock e inizio a suonare ininterrottamente la chitarra, perché il successo con le ragazze è assicurato. Però comincio anche a cantare musica antica in giro per l'Italia e a frequentare jazzisti, finché un amico mi consiglia di comprare una tromba, più che altro perché nell’ambiente pochi la suonano. Indeciso tra intraprendere studi di fisica o fare il camionista comincio invece a soffiare nello strumento, a insegnare musica ai minorenni, a recitare e suonare in compagnie teatrali, a frequentare la Scuola Popolare di Musica di Testaccio e il Conservatorio di Santa Cecilia.
Poi, nel 1992, dopo un anno deprimente, privo di casa, lavoro e fidanzata, incontra i Têtes de Bois. La prima esibizione con loro è disastrosa: nessuno spettatore presente, incasso zero. La band si offre lo stesso di pagargli la serata (50.000 o, secondo un’altra versione, 70.000 lire). Luca declina. Per cui viene ammesso di diritto nel gruppo. Da allora la sua funzione critica e le sue doti di supervisore diventeranno indispensabili.
Resta senza risposta l’interrogativo iniziale: da dove trae origine il temperamento flemmatico di Luca?
Cerca un equilibrio tra vita, musica e vino buono. Ma solo sul palco prova vero benessere. Sul palco avviene la magia che lo rende felice. Ancor di più se si trasformano in vantaggio le situazioni svantaggiose, se ci si appropria dello spazio scenico, se c’è la condizione ideale per una libertà interpretativa, se anche il suono della tromba, così diverso, così ingombrante arricchisce ed emoziona.
Qualche tempo fa dovevamo suonare in piazza Verdi a Bologna, in piena estate. Si scoprì che non c’era l’agibilità. Ci trasferimmo dentro il Teatro Comunale. Decisione assai audace. Eppure tutti i problemi tecnici e acustici furono superati e in perfetto orario, davanti a 400 persone, improvvisammo un concerto magnifico. Ho provato la sensazione di essere nel posto giusto al momento giusto, con un suono perfetto, davanti a un pubblico ideale. Ecco, in quei momenti ho provato godimento, una sospensione quasi orgasmica.
E quando finisce un bel concerto, quando i Têtes de Bois sono schierati sul proscenio e si inchinano per gli applausi quando lui dice: “Grazie, veramente grazie, grazie di cuore”, in quel momento, senza che nessuno se ne accorga, Luca è felice.
Fotogallery
Alfonsina e la bici, il video
Giornalista e scrittore, nonché inventore del personaggio di Eros Greco, cui ha dedicato una trilogia letteraria, Massimo Pasquini è grande amico di ciascuno dei componenti del gruppo romano e, ascoltati i racconti e raccolte le testimonianze, ha trasformato centinaia di storie in una storia sola, quella di quattro sperimentatori giocosi, poetici e graffianti della fantasia al potere.
Non si pensi, infatti, a una biografia classica: nel centinaio di pagine dedicate alle “storie” – le altre, circa cinquanta, sono di fotografie – non ci sono analisi critiche né tantomeno si parla di dischi, e il tutto non è neppure in ordine cronologico. I racconti dall’autore, che fiancheggia il gruppo fin dall’inizio della carriera, riescono però a cogliere “l’essenza” dei Têtes de Bois, facendo capire alla perfezione – grazie anche a una prosa godibilissima nel suo bilanciare leggerezza e pregnanza – perché la loro curiosa, sorprendente esperienza musicale, culturale e di impegno civile meriti di essere conosciuta Federico Guglielmi, L'ultima Thule
Un racconto incorniciato da una miriade di incontri con altri artisti (e non) che ripercorre le principali tappe, i progetti balzani "interstiziali" di un gruppo che nel fare arte non mancherà di associarvi battaglie sociali. (...) La "band mai di moda" eppure resistente, che concima eventi tra la musica e le storie di un mondo intossicato, crea situazioni tra note suonate su un tram o mentre sta omaggiando Baudelaire o la canzone anarchica di Georges Brassens e del loro amatissimo Leo Ferré Mimmo Mastrangelo, Avvenire
Quindi, il merito di questo agile volumetto, che si chiude con un apparato fotografico, è di tenere accesa una candela nel cuore della notte, mentre si mette in moto ancora una volta il furgone, per ripartire. Al fianco, ovviamente, dei Têtes de Bois Luca Cremonesi, Rock Nation
Il loro credo è ciò che ogni artista degno di tale nome dovrebbe osservare (...) pronti a muoversi a piedi, in bici, in tram, metro, camioncino o mongolfiera, tra città infernali e campagne sperdute, a lanciarsi in imprese impossibili, spesso sul punto di implodere, e che poi come per incanto hanno funzionato a meraviglia Piercarlo Poggio, Blow Up
“La strada, il palco e i pedali” è un anniversario, una rimpatriata, un album di famiglia, una nuova festa sui prati, un’eterna pedalata di gruppo compatto Marco Pastonesi, TuttoBiciWeb
pochi gruppi hanno saputo nobilitare il concetto di canzone d'autore, ma la loro avventura per essere valorizzata appieno non potrà mai essere slegata dai numerosi eventi che li hanno visti coinvolti in prima persona, segno inequivocabile di un talento fuori dal comune Gianni Gardon, Vinile
trent'anni di pedalate tra poesia e musica, ecologia e anarchia, teatro e strada (...) Pasquini restituisce con leggerezza una colorata epopea fatta della stessa sostanza dei sogni Alessandro Hellmann, Rockerilla
Trent'anni trascorsi nel più parossistico, vorticoso, imprevedibile cavalcare eventi tra la gente, inventati per germinazione spontanea e tradotti in realtà a fronte della apparente impossibilità a realizzarli (...) Massimo Pasquini riesce a riprendere e a rilanciare non un filo del discorso ma un intero mazzo di fili: pendant in parole perfetto e avvincente per chi segue le avventure di tutta la squadra del camioncino e del capitano senza gradi Andrea Satta Guido Festinese, Alias-Il manifesto
La lettura scorre piacevole e leggera e consente al lettore di avere uno sguardo d’insieme sul cammino compiuto in questi anni dai Têtes de bois, il tutto senza cadere mai nella retorica o nella più facile delle celebrazioni agiografiche, ma piuttosto cogliendo l’essenza delle storie, degli incontri e delle peripezie del gruppo. Un diario di viaggio di una band in continuo movimento, rigoroso nella sua sconclusionatezza... Salvatore Esposito, Blogfoolk