Raúl Zurita, Gonzalez y los Asistentes
Desiertos de amor
2018, € 15 formato 19x14, 68 pp. con un poetry comics di Massimo Giacon
In offerta con il 5% di sconto
La poesia di Raúl Zurita è alfabeto che si fa corpo, sintassi che si fa sogno.
Tra la violenza della dittatura e la testardaggine di una speranza che nelle parole affonda le sue radici, le sue poesie sono un esercizio privato di resurrezione che, proprio perché è così personale, sfugge ad ogni retorica e si affida all’essenziale crudeltà del reale.
I suoi versi, martellanti e scortesi, risentiti e colmi di sprezzatura, ricordano quelli dell’amato Dante, quello ‘petroso’ e infernale, mescolando dramma civile e tragedia interiore.
I suoni aspri del rock cattivo e scabro di Gonzáles y los asistentes si sposano con la sua voce cupa e roca e con la forza della sua poesia, la svisano, gli danno eco e corpo musicale, facendo di Desiertos de amor un’opera dall’intensità sconvolgente.
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Dall'intervista a mo' di introduzione
Un esercizio privato di resurrezione. Una intervista con Raúl Zurita
di Marco Fazzini e Sebastiano Gatto
Non è passato molto da quando sono arrivati sul nostro tavolo i testi di Zurita. Un documento in Word senza indici, prefazioni o intestazioni; una suite di testi in carattere maiuscolo e quasi senza a-capo, il primo dei quali intitolato, ex abrupto, FELLATIO. Il titolo viene dal racconto di una fellazione vera e di un’altra altrettanto vera: il calcio di un fucile che sfonda la bocca di un uomo. Nessuna separazione tra metafora e realtà: in Zurita le metafore spiegano la vita attraverso la vita, non attraverso le immagini; in Zurita, tra immediatezza e mediazione, prevale senza eccezione la prima. Tutto in questi versi è talmente esposto da obbligare il lettore, quasi per reazione, ad alcune domande: è giusto dire tutto, dirlo sempre, oppure arriva un momento in cui ci si deve fermare, in cui bisogna interrogare il pudore?
Credo che il pudore o il chiedersi fino a dove sia possibile arrivare non c’entrino, perché nella poesia, nell’arte in generale, la risposta è una sola: fino alla fine. Come artista non puoi cominciare ponendoti dei limiti. Ci saranno già gli altri a porteli e vedrai con che entusiasmo lo faranno. Nessuno scrive poesia solo, si scrive con la totalità della storia e se la scrittura di una poesia è un atto intimo, lo è solo perché non c’è niente di più collettivo dell’intimità. Lì si incrocia tutto: i sogni della notte precedente, ricordi, letture, discussioni, sconfitte, esilii, speranze.
I manuali lo spiegano bene: non si può comprendere un’opera solamente attraverso la vita del suo autore. Sarebbe limitante, deformante utilizzare la lente della vita per leggere l’opera. In casi come questo, tuttavia, dove la vita di cui parliamo si svolge per anni sotto una delle dittature più spietate del Novecento, fuorviante sarebbe il contrario, ossia far finta di niente, tralasciare del tutto il dato biografico, il vissuto, per cimentarsi con la filologia. Ce lo conferma lo stesso Zurita che, automaticamente, ogniqualvolta viene interrogato sulla vita, risponde con la poesia, ogniqualvolta viene interrogato sulla poesia, risponde con la vita.
Vivo in un paese che non ha restituito i cadaveri; nessuno ha restituito alla sposa il corpo del suo sposo, al bambino piccolo il corpo di suo padre, all'anziano il cadavere di suo figlio, e fu la grande poesia cilena, erede di Pablo Neruda, Pablo de Rokha, di Gabriela Mistral, di Vicente Huidobro, di Violeta Parra, di Victor Jara, che, attraversando quegli anni terribili, dovette discendere all'asperità della terra, al deserto, alla bocca dei vulcani, alle schiume del mare che accolsero quei resti, per agire nel nome di un popolo che non poteva farlo, con le esequie degli assenti, punire le loro vite e seppellire nelle tombe del linguaggio ciò che i vivi dovevano aver sepolto nelle tombe dei morti. Non ci sono limiti all'orrore umano, non esistono parole per descrivere l'orrore assoluto, per far comprendere l'istante esatto in cui un corpo torturato fino a un momento prima, diventa il corpo di un desaparecido, non abbiamo concetti per immaginare che domande, che ricordi sono quelli che assalgono un uomo in quell'estremo mostruoso in cui sta morendo. Non esistono quelle parole, né mai esisteranno e per questa stessa ragione, per il fatto di non esistere, nostro dovere è gridarle con forza ancora maggiore. Perché il fatto è che non si uccide un essere umano una sola volta, lo si uccide infinite volte, lo si continua a uccidere mille volte e mille ancora in ogni luogo della terra. Questo è ciò che implica far parte dell'umanità. Ogni assassinio è un genocidio e, se possiamo parlare di diritti umani è perché uno dei fatti più chiari dell'essere vivi è che le conseguenze delle azioni individuali non scappano mai dalla loro dimensione collettiva e che le azioni collettive hanno sempre una soluzione individuale.
Una poesia che in modo tanto esplicito e ostinato tiene assieme il collettivo e l’individuale e che richiama costantemente alla prossimità e alla reciprocità fra esseri umani in condizioni di estremo dolore, non può non interrogarsi sulla colpa, su chi la agisce e chi la subisce. I protagonisti dei versi di Zurita, gli uomini e le donne di Zurita, sono per definizione vittime, vittime di un male grande, assoluto, di aguzzini hijos de puta. Ma uno degli aspetti più sconcertanti e laceranti di questi testi è che anche nelle vittime il poeta sembra rintracciare una colpa, forse la colpa di esistere. Attraverso i suoi versi Zurita pare cercare per ciascuno di loro (forse anche per se stesso) un’assoluzione.
Lavoro con la mia vita e non perché creda che la mia vita abbia qualcosa di speciale, al contrario, ma perché credo che se siamo capaci di arrivare al fondo di noi stessi senza autocompassione, né falsa solidarietà, è possibile che stiamo toccando il fondo dell’umanità intera. Credo che tutto quel che posso aver fatto sta lì, in quei tentativi. Ho scritto da un corpo che si piega, che si irrigidisce per gli effetti del Parkinson, che trema, che va avanti e cade e ho trovato bella la mia malattia, ho sentito che i miei tremolii sono belli, che la mia difficoltà nel sorreggere questi fogli che leggo ora è bella. Nel rovescio ferito di questo mondo ho scritto su questo corpo, sui dolori che io stesso ho causato ad altri e quelli che io mi sono inflitto, ho registrato le mie poesie sulla pelle. Solo i malati, i deboli, i feriti sono capaci di creare capolavori. Sento di aver scritto da una certa irreparabile disperazione e, allo stesso tempo, da un’incontenibile allegria. Un’allegria strana, perché è come se nascessi dalla difficoltà di essere felici. Dall’incontro con questi fantasmi nasce la mia scrittura. La scrittura è come la cenere che resta di un corpo bruciato. Per scrivere bisogna bruciarsi per intero, consumarsi finché non resti né il frammento di un muscolo, né di ossa, né di carne. È un sacrificio assoluto e allo stesso tempo è la sospensione della morte. È qualcosa di concreto; quando si scrive si sospende la vita e perciò si sospende anche la morte. Scrivo perché è il mio esercizio privato di resurrezione.
Come si avverte da queste parole, l’esercizio in Zurita è qualcosa di assolutamente distante dall’esercizio di stile, intellettuale. L’esercizio privato di resurrezione avviene principalmente a livello corporale, è un’azione che costa fatica, sforzo, sudore. Si ha la sensazione, davanti a questi versi, di assistere a una lotta tra la disperazione e la resistenza, dove da una parte si avverte l’irrimediabilmente perduto, dall’altra la presenza di un qualcosa che si ostina a vivere. In Zurita la stessa azione del mettere la parola sulla carta diviene una forma di resistenza.
È quello che ho cercato di fare con tutta la mia paura e il mio amore. Nel cuore della notte feroce del Cile ho immaginato libri interminabili che si cancellavano all'alba, ho scritto nella mia mente poesie allucinate dove il Pacifico galleggia sospeso sulle cime delle Ande e il deserto di Atacama si eleva come un uccello sull'orizzonte. Immaginare poesie scritte nel cielo o tracciate nel deserto è stato il mio modo intimo di resistere, di non impazzire, di non rassegnarmi. Ho sentito che di fronte al dolore e al danno bisognava rispondere con un'arte e una poesia che fossero più forti del dolore e del danno che ci stavano causando. Non si trattava di lanciare bordate di piccole poesie da combattimento, ma di qualcosa di assai più rasente, più luminoso, più sordo e violento, e per questo bisogna imparare a parlare di nuovo, cominciare da ogni lettera, perché nessuno dei linguaggi che esistevano prima bastava a restituire l'enormità di quel che era successo e continuava a succedere. Sento che gli sgombri di quegli anni sono lì, in quei tentativi e che, dettati da un desiderio che ci sorpassa, le poesie non sono altro che i sogni che sogna la Terra, i sogni con cui cerca di lavarsi dalla sofferenza umana e che uno non può niente di fronte a questo, se non lasciare delle piccole impronte, dei minimi ritagli che forse sopravviveranno al risveglio.
Zurita fa parte di quella famiglia di autori che investe nella pagina la parte più preziosa della vita, che vive la letteratura come un percorso esperienziale. Fa inoltre parte di quegli autori, come Tolstoj, Sofocle, il Salmista, che nella scrittura cercano cambiamento, maturazione, ripensamento, resurrezione. C’è un autore tuttavia in cui più di ogni altro Zurita sembra trovare una corrispondenza profonda, un poeta che lo accompagna da vicino, intimamente, da tutta la vita.
Mia nonna, emigrante dall'Italia, che morì sconfitta dalla nostalgia di un paese che mai poté rivedere, mi leggeva pezzi della Divina Commedia molto prima che io potessi capirla. Ma siamo chiari, sono solo una bestiolina sentimentale sudamericana e non pretenderò di insegnare io agli italiani la Divina Commedia, per Dio, no, solo che per me è sempre stata il più grande, sublime e lacerante poema della solitudine. Quel che mi commuove, che qualcuno si inventasse la più grande delle attraversate, niente meno che un'attraversata dell'Inferno, il purgatorio e il Paradiso per ascoltare il suo amore dire le cose che in vita non gli disse mai e ascoltargliele dire come se non fosse lui stesso a dirsele. Dante si innamorò di Beatrice. Di qualcuno con cui aveva solo incrociato degli sguardi. Quando lei muore, lui può comprendere, in qualche parte di lui, l'amore che muore. Ogni essere umano sperimenta la cosa più vicina alla propria morte quando un essere da lui adorato muore. Questo incrocio di sguardi è la base della Divina Commedia; il resto è speculazione, è equivoco, è critica letteraria. Tutti alziamo qualcosa di simile al poema dantesco quando ci guardiamo l'un l'altro. Tutti attraversiamo l'Inferno e il Purgatorio quando l'altro muore. Tutti torniamo al paradiso quando immaginiamo che quest'altro è tornato per parlare con noi, per dirci ciò che sempre abbiamo voluto sentire e che mai ci fu detto. Tutti conversiamo prima di addormentarci con esseri che abbiamo amato o che amiamo e in quelle conversazioni si eliminano le barriere della distanza o della morte, solo per questo possiamo finalmente addormentarci. Gli esseri perduti per sempre tornano di notte. Questo è ciò di cui parla il più grande poema mai scritto, ma perché fosse scritto, il suo amore dovette morire. Tuttavia, come in un sogno, possiamo ancora immaginarci un'opera infinitamente più cruciale, infinitamente più vasta, infinitamente più meravigliosa e disarmante della Commedia. Sta qui: che il mio amore non muoia.
Chiudiamo con un gioco. Fra le pagine della Divina Commedia, nel secondo canto del Purgatorio, appare un personaggio di cui sappiamo molto poco: si tratta di Casella, un amico di Dante che pare abbia messo in musica alcune poesie dello stesso. Al pari di Dante, anche Zurita ha il suo Casella, l'ha trovato in González y los Asistentes, la rock band che da anni lo supporta in molte performance. Siamo, per stile, dalle parti del Tom Waits di Bone Machine, di The Black Rider, un crooner che suona con le ossa e fa cantare i cani.
Con loro faccio le mie poesie più cupe e mi diverto.
Il CD
1 VERAS 2:35
2 POEMA DE AMOR 2:52
3 FELLATIO 2:50
4 ENTERA MIERDA 2:36
5 VIRIOS ROTOS 3:45
6 MARGARITAS EN EL MAR 3:28
7 GUARDAME EN TI 3:45
8 LAS CIUDADES DE AGUA 3:50
9 DESIERTOS DE AMOR 1 3:43
10 DESIERTOS DE AMOR 2 3:38
11 DESIERTOS DE AMOR 3 4:35
Un video sull'opera di Zurita
Raul Zurita è uno dei massimi poeti cileni contemporanei. Militante comunista, incarcerato e torturato sotto la dittatura militare, tra gli esponenti più radicali del celebre C.A.D.A. (Colectivo de Acciones de Arte), è conosciuto in tutto il mondo per l’originalità della sua produzione lirica, oltre che per le sue spettacolari “azioni” poetiche, come quella realizzata nei cieli di New York, quando un aereo ha disegnato con il fumo una sua poesia.
Gonzalez y Los Asistentes è una band rock cilena non nuova a incursioni in testi di poesia e narrativa, da Rodrigo Lira a Violeta Parra. Da tempo hanno uno speciale sodalizio creativo con Raul Zurita con il quale si esibiscono anche in entusiasmanti concerti di rock e poesia.
Zurita si porta appresso, chiari e netti, i segni della dittatura di Pinochet. I versi crudi e disseccati al sole paiono sulle prime la negazione totale della speranza ma invece è proprio tale lessico disturbante a far affiorare tra le pieghe la speranza Piercarlo Poggio, Blow Up
La poesia del cileno Raúl Zurita, attraverso un linguaggio al vetriolo che va dritto per dritto come un calcio in bocca, rappresenta “un esercizio privato di resurrezione”. La band indie-rock González Y Los Asistentes sostiene e amplifica la potenza già devastante della parola con un suono plumbeo, sporco, gravido di elettricità Alessandro Hellmann, Musicalnews
Dal Cile proviene anche il poeta Raul Zurita con la musica fornita dalla band Gonzalez y los Asistentes, che poggia sotto i versi un background corporeo, intriso di un rock scuro, a volte anche ruvido Alberto Bazzurro, Musica Jazz