Nico Stati
Kajda
Musiche e riti femminili tra i rom del Kosovo
2013, € 13
Questo libro si occupa delle musiche suonate all’interno dei riti femminili, in Kosovo, da musicisti specializzati rom, donne ed effeminati, i quali cantano e suonano il tamburo a cornice, per lo più in coppia. Il repertorio si compone di forme di danza, dette kajda, ordinate in suite, variamente combinabili tra di loro. Il linguaggio musicale e il repertorio di questi musicisti sono di estrema complessità, soprattutto sul piano delle strutture ritmiche. La loro esistenza è sufficiente a mettere in crisi non soltanto la definizione di ritmo “irregolare” o aksàk, elaborata dall’etnomusicologia del Novecento, ma anche l’idea di organizzazione delle durate che appartiene alla maggior parte dei linguaggi musicali.
La tradizione del Kosovo si inquadra in un sostrato più ampio di musiche femminili, suonate da donne ed effeminati, le cui prime attestazioni risalgono al XXXV sec. a. C. e che sono presenti in una vasta area, che va dall’India a tutto il Mediterraneo.
La prima parte del libro si occupa di queste testimonianze, storiche ed etnografiche, al fine di descrivere il contesto di appartenenza della tradizione kosovara, descritta analiticamente nella seconda parte, sia sul piano dell’apparato rituale che su quello delle strutture musicali. Segue una parte relativa al metodo della ricerca, con particolare riferimento alle riprese fotografiche e audiovisive. Il volume si conclude con un’ampia sezione fotografica, frutto di un lavoro ventennale sul campo.
Ascolta il brano Jakovako di Hatixhe Korlak e Selvyzaz Bytyqi
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Premessa
Questo libro si occupa delle musiche suonate all’interno dei riti femminili, in Kosovo, da musicisti specializzati rom, donne o effeminati. I quali cantano e suonano il tamburo a cornice, per lo più in coppia. I loro sono repertori complessi, che richiedono competenze tecniche e musicali specialistiche: i suonatori effeminati sono poco numerosi (come lo sono, del resto, pure le suonatrici).[1] E sono peraltro piuttosto schivi: fuori dai luoghi e dai momenti in cui prestano la propria opera non parlano volentieri di sé, né del proprio ruolo, della propria musica.
Anche in ragione di questa attitudine il loro ruolo può apparire, per questa tradizione musicale e rituale, marginale e accessorio. Non si manifesta con speciale evidenza, e non è imprescindibile, giacché la medesima funzione può essere assolta dalle musiciste donne. Tuttavia vi sono delle differenze, tra il modo in cui le musiciste donne esibiscono sé stesse, nel corso delle feste in cui vengono chiamate a prestare la propria opera, e il modo in cui lo fanno gli effeminati. Costoro, si direbbe, accompagnano alla prestazione musicale un certo modo manierato, teatrale di esibire i propri comportamenti femminei che non è femminile ma peculiarmente loro, che dunque non appartiene alle professioniste donne, e che diviene parte della messa in scena rituale.
La parola “effeminati” viene qui utilizzata per definire uomini che si comportano in modo visibilmente e a tratti ostentatamente femmineo. Questi comportamenti, quest’inclinazione comportano spesso, tra i rom (e, molto più raramente, anche tra le popolazioni di lingua albanese) del Kosovo, l’avvio alla professione di suonatore di tamburello: attività che si svolge esclusivamente all’interno di ambienti femminili.[2] I suonatori effeminati talvolta - specie quando suonano, nelle feste - si abbigliano e si acconciano in modo più o meno esplicitamente femminile. A volte, implicitamente o esplicitamente, si definiscono omosessuali.[3] E in genere sono ritenuti tali dagli altri. Ma l’omosessualità in diverse aree e ambienti culturali è riconosciuta e accettata e - come in questo caso - trova una sua funzione sociale solo a patto di non essere esplicitamente nominata, quantomeno in occasioni e luoghi ufficiali. L’esplicita denominazione dell’orientamento sessuale è impiegata solo in contesto informale, meglio se con toni scherzosi o allusivi, in modo a volte scurrile. E, è importante rilevarlo, sia da parte dei suonatori effeminati che da parte degli altri. La licenziosità, la scurrilità, il riso cioè non sono soltanto degli altri verso di loro, ma sono spesso messi in scena, specie in occasioni rituali, dagli stessi suonatori effeminati. Il che certo può esser determinato, su un piano individuale, dalle difficoltà esistenziali: dalla necessità di mettere in scena in modo stereotipo un’identità non accolta e accettata pianamente dagli altri, di difendersi, nascondersi dietro un’esibizione plateale che occulta la dimensione soggettiva dietro una tipizzazione estrema. Ma ha anche a che fare con una dimensione culturale profonda, costruita collettivamente, da loro e dagli altri. Nella quale la loro condizione, i loro orientamenti trovano una collocazione a un tempo organica e marginale: anzi, organica in quanto marginale.
L’ambiguità, la scurrilità, il modo allusivo in cui ci si riferisce ai comportamenti femminei e alle inclinazioni omosessuali contribuiscono in modo determinante a costruire la liminarità indispensabile al ruolo di officianti dei riti svolto dagli effeminati. Perché la condizione di chi da uomo si fa donna, in modo più o meno esplicito ed evidente, in quanto stato liminare permanente, comporta capacità elettive di operare nelle condizioni rituali di liminarità: fa degli effeminati gli officianti specialmente qualificati di alcuni riti di passaggio da una condizione ad altra. Riti legati alla nascita (le feste di circoncisione), al matrimonio, e, in passato, alla morte.[4] L’effeminatezza suscita il riso: lo provocano gli stessi effeminati, che nelle feste si mettono in scena, enfatizzando i propri modi femminei e rendendoli paradossali e grotteschi; lo raccolgono e lo amplificano gli altri, attendendo questi comportamenti e sollecitandoli col proprio atteggiamento e con le proprie battute. Gli elementi grotteschi e paradossali della loro rappresentazione di sé, della propria condizione, quelli che suscitano il riso e la scurrilità, l’ambiguo e il non detto sono necessari al loro ruolo rituale, alla loro funzione sociale. Insomma quello che appare in evidenza, nel modo in cui i suonatori effeminati si offrono allo sguardo altrui, in cui si mettono in scena, con esibita, grottesca licenziosità, quel che pare rilevante agli occhi degli altri, e dagli altri richiesto, non ha tanto a che fare direttamente con il loro orientamento sessuale, quanto coi loro modi femminei: che appaiono comici e paradossali, come è proprio delle cose bizzarre.[5] Il ridere e il piangere, il far ridere e il far piangere, sono elementi fondamentali dei riti officiati dagli effeminati. Tutto ciò si attaglia alla tradizione osservata in Kosovo, come alle altre di cui si riferisce nelle altre parti di questo libro e come a quelle documentate da fonti storiche, più o meno antiche, nella vasta parte del mondo in cui si manifesta o si è manifestata una relazione profonda tra donne, inversione dei comportamenti maschili, riti della nascita, di nozze e funebri, e musica (in specie il canto accompagnato dal tamburello).
La liminarità comporta insomma, tra i rom del Kosovo come altrove, una statuizione implicita, una assenza di istituzionalizzazione, di esplicitazione del ruolo degli effeminati. Se fosse del tutto esplicitata e pienamente statuita questa condizione perderebbe la propria forza, che dalla liminarità trae alimento. Per ciò i modi coi quali più si suscita il riso sono le battute a doppio senso, i giochi di parole ambigui: le cose utili a marcare l’indeterminatezza, l’irresoluzione.
Rispetto alle attestazioni più antiche sembra che in epoca moderna - partecipe la tendenza a promulgare norme morali e di comportamento propria dei grandi sistemi religiosi - la marginalizzazione, la liminarità siano più accentuate che in un lontano passato. Il che, peraltro, giova ad enfatizzare funzioni e prerogative di questi particolari officianti dei riti femminili.
Del resto anche al di là dell’orizzonte preso in considerazione nelle pagine che seguono, nell’Europa cattolica, questa tradizione trasluce in ambiti ben più ampi di quelli degli scampoli di tradizioni napoletane cui si fa cenno più avanti in questo scritto. Non soltanto se ne rintracciano gli echi nel ruolo dei castrati nel teatro in musica;[6] gli officianti dei riti, anche nell’Europa moderna, in luogo dei calzoni vestono (o vestivano fino ad epoche assai recenti) lunghe vesti scure, di ambigua collocazione di genere.[7] I loro paramenti solenni hanno trine e merletti; quelli utilizzati per i riti del lutto (celebrati, nelle tradizioni popolari, esclusivamente da donne ed effeminati), sono di color malva o viola. In ampie parti dell’Europa moderna per lungo tempo, in occasione delle celebrazioni pasquali, hanno assolto il compito di suscitare il riso, in chiesa, con comportamenti scurrili e ostentando modi femminei.[8] Gli officianti, per consuetudine invalsa fin dal IV sec. e statuita, molto più tardi, dal Concilio di Trento, sono tenuti al celibato. La lunga tradizione per la quale le persone di orientamento sessuale incerto o “deviante” si avviavano al sacerdozio non sembra estinta, nonostante la maggiore libertà di scelta e di comportamento di cui si gode oggi nella maggior parte d’Europa. La Chiesa Cattolica, pur accogliendo al proprio interno lunghe e consistenti tradizioni omofiliache, è sul piano teorico e ufficiale, della comunicazione esplicita, radicalmente avversa all’omosessualità: la vieta e la condanna, come e più di ogni altra attività sessuale non finalizzata alla procreazione. Così anche in questo contesto la collocazione degli officianti ha conservato scampoli, brandelli di sopravvivenza della liminarità, dell’incertezza, del non detto che paiono esser stati e in parte essere ancora caratteristiche imprescindibili della loro funzione. Come in ogni luogo in cui il ruolo degli effeminati è ancora vivo, accettarlo esplicitamente e nominarlo indebolirebbe irrimediabilmente la capacità di operare sul piano del sacro degli officianti di ogni rito di transizione.
Verosimilmente in ragione di questa peculiare leggerezza, di questa sorta di visibilità parziale e relativa, in Kosovo come altrove, la presenza e il ruolo nei riti di suonatori effeminati sono scarsamente rappresentati nella letteratura specializzata, nei resoconti di viaggio, in documenti storici di ogni genere.[9] E quando sono presenti lo sono a margine, o tra le righe, implicitamente: perché la presenza di uno o più suonatori effeminati che si mescolano alle donne e agiscono con esse è di volta in volta e ogni volta considerata un fatto eccezionale, marginale, espressione di un capriccio individuale, di bizzarrie estemporanee ed estranee al sistema mitico-rituale. Soltanto una ricerca specifica, che tenga conto degli antecedenti storici e dei riscontri etnografici, permette di collocare la vicenda di suonatori e suonatrici del Kosovo e del loro strumento elettivo, il tamburello, all’interno di un sistema culturale e di una funzione rituale organici e coerenti.
Va detto che non solo gli effeminati, ma anche le donne musiciste sono delle figure speciali, e di confine. Assumono un ruolo sociale che normalmente le donne in quell’ambiente non rivestono. Hanno competenze specialistiche, dalle quali traggono, in modo relativamente cospicuo, sostentamento, per sé e per la propria famiglia. Si recano fuori casa per lavoro: e il loro lavoro, durante la stagione estiva, impegna molto tempo, e impone assenze prolungate, a volte anche di più giorni. Le musiciste hanno un’autonomia sociale molto più sviluppata di quella di cui godono la maggior parte delle donne rom del Kosovo; sono spesso vedove o separate, o sono in condizione di far accettare a mariti e congiunti la propria autonomia, la propria importanza per la sussistenza dell’intero nucleo familiare.
I suonatori di tamburello poi, sia le donne che gli effeminati, sono rom: categoria a sua volta di marginali per condizione contrattata tra sé e gli altri. Suonatrici e suonatori appartengono cioè a una più ampia comunità di interpreti specializzati di cultura, di attraversatori specializzati di confini: confini sociali e culturali, prima che geografici e politici. Sono dunque, queste donne e questi effeminati, doppiamente marginali, o più che marginali, e per ciò del tutto centrali per questa vicenda di circolazione di cultura che dalle più antiche attestazioni e fino alle tradizioni attuali racconta del farsi e disfarsi di un sistema di relazioni, di modi di esistere e di mettere in scena l’esistente sommerso ma ancora presente e del tutto vitale nel mondo contemporaneo: fino alle più recenti esibizioni pubbliche dei gay-pride, alle pubbliche polemiche che essi suscitano.
A noi etnomusicologi compete valutare strutture musicali e repertori sul piano analitico, del contesto, delle occasioni d’uso. Non appartiene ai nostri compiti tradizionali formulare giudizi estetici. Ma le musiche di cui ci occupiamo per lo più ci piacciono: altrimenti ci occuperemmo d’altro. E una sedimentata attitudine ad ascoltare con attenzione, a costruire metodi di analisi su sistemi e linguaggi musicali di diversa natura alimenta e affina il nostro senso critico. Queste musiche, devo dire, io le trovo meravigliose. L’ambiguità, l’incertezza ritmica, l’apparente disordine che cela un ordine rigoroso, il disorientamento come criterio di orientamento tra timbri e tempi che sfumano e trascolorano in altri timbri e altri tempi sono di rara bellezza. È forse possibile, c’è da augurarsi anche, che la marginalità che ha prodotto tutto questo, e che segna di fatica la vita di rom, di effeminati, donne del Kosovo, trovi percorsi più lievi. Ma questa faticosa, sofferta marginalità ha prodotto un monumento della storia della cultura. Marginale e sconosciuto, come le vicende di chi ne è interprete e testimone, ma di grande importanza, e bellezza. Questo libro, col film che lo accompagna, spera di contribuire a conservarne e tramandarne un pezzo di storia. Con strumenti non così dissimili da quelli impiegati dai protagonisti: in un disordine di percorsi che essi pure, si spera, celano un ordine decifrabile.
[1] I suonatori professionali che ho conosciuto sono in tutto sei: Uka Kerelaj e Isa Krasniqi, di Peje, e Shpetim Smacq, Besnik Qeli, di Gjakova. Altri due suonatori di Gjakova, Asmon e Bilhan, che ho incontrato e registrato nel 2002, sono poi morti. Il celebre Tafa, che viveva a Peje, non ho avuto modo di incontrarlo prima della sua morte. Negli anni Novanta è stato però registrato, in audio e in video, da Svanibor Pettan. Sono al corrente dell’esistenza di altri due suonatori, Rrema e Uka, l’uno proveniente da Peje l’altro da GGjakova, che vivono in Germania. Ho raccolto diverse registrazioni della loro musica, ma non ho mai avuto modo di riprenderli personalmente. Anche di Hamidja, di GGjakova, attiva fino agli anni Settanta e Ottanta, ho ritrovato delle registrazioni. Altre due, di GGjakova, cioè Tona e Ziza, sono morte da tempo (ma esse pure registrate negli anni Novanta da Svanibor Pettan: un breve estratto è pubblicato nel CD Kosovo Roma, con libretto a stampa, a cura di Svanibor Pettan, Arthefon, 2001: 13). Tona e Ziza costituiscono un modello per la maggior parte delle suonatrici e dei suonatori attuali, che dichiarano di aver appreso il mestiere da loro, direttamente o indirettamente. Le donne professioniste attualmente attive che ho conosciuto e registrato personalmente sono in tutto otto: Hatixhe Korlak, Selvynaz Bytyqi, Qelebije Gashi e Miradije Meho, di Prizren; Sebahate Hasani, di GGjakova; Mirita Berisha e Ryva Gashi, di Rogove. Mirita suona anche con la sorella minore, Merlinda. Registrazioni di Hatixhe Korlak e Selvynaz Bytyqi sono pubblicate nei CD Canti erranti. Musiche nuziali dei rom del Kosovo, con allegato libretto a stampa, a cura di Nico Staiti, Lugano, RTSI, 2006: 1 e 2; Suoni dal Mondo. Festival di musica etnica. XIX edizione, tre CD e libretto a stampa, a cura di e testi di Nico Staiti, Bologna, Emitage (ERM 1967), 2009 II: 1. Un altro suonatore, di Pristina, vive a Firenze, e, sebbene non sia un professionista, presta la propria opera per le feste dei rom kosovari che abitano in quella città. Una sua registrazione è pubblicata in Suoni dal Mondo. Festival di musica etnica. XV edizione, due cd e libretto a stampa, a cura di e testi di Nico Staiti, Bologna, Emitage (ERM 1966), 2008, I: 4. Esiste anche una produzione discografica locale, relativamente cospicua, di esecuzioni di Mirita Berisha, con Ryva Gashi o da sola (in un caso anche assieme ad Hamidja). Queste quelle che ho raccolto: Motrat Rugova & Hamidja me def. Këngë Dashurie me Def, Audio & video production EuroLiza; Këngë me def. Merita e Ryva motrat nga Rogova, Rogove, Produksioni musikor Nardi e Produksioni musikor Studio Mili; Këngë nusnie me def. Motrat Berisha Merita e Ryva, Prizren, Produksioni musikor Dona; Ryva Mirita Motrat nga Rogova. Kenge dasmash me def, Xerxe, Produksioni musikor MR; Për Ju. Mirita Rogova, GGjakova, Produksioni musikor Kastrati; Valle me defa. Merita Rugova, GGjakova, Produksioni musikor Kastrati.
[2] Esistono in Kosovo, se ne dirà nel capitolo dedicato alle musiche, luoghi e occasioni maschili d’uso del tamburello. Ma repertori, linguaggi musicali, ambiente sono del tutto diversi e distanti da quelli di donne ed effeminati.
[3] Ma ovviamente il contesto (e la discrezione) non consentono di avere notizie sui comportamenti sessuali, che appartengono ad una sfera del tutto privata; i comportamenti effeminati, invece, sono pubblici; notarli è responsabilità soggettiva di chi osserva, non delle persone di cui si riferisce.
[4] Il rapporto tra effeminati, tamburello e riti del lutto è presente in molteplici tradizioni, fin dalle prime attestazioni, presso i Sumeri. Se ne dà variamente conto nelle pagine che seguono. Nel Kosovo dei giorni nostri ne riferiscono soltanto, mediatamente, i testi di alcuni canti e le concordanze morfologiche e funzionali con alcuni elementi dei riti nuziali: in specie la cerimonia del pianto della sposa.
[5] Sull’effetto comico del paradosso il riferimento, del tutto ovvio, è a FREUD 1905 e alle ulteriori considerazioni espresse da Jacques Le Goff in LE GOFF 1989.
[6] Sulla vicenda dei castrati nel teatro d’opera si veda HABÖCK 1927, HERIOT 1956, BARBIER 1998.
[7] Certo la foggia dell’abito talare e dei paramenti liturgici non scaturisce da un’intenzione ambigua, sul piano del genere. Si tratta invece, con tutta evidenza, di fogge che, in passato, suggerivano l’idea del potere imperiale. Ma certo nel corso del tempo il senso di questa originaria funzione emblematica si è indebolita, lasciando un poco di terreno ad altre e diverse interpretazioni.
[8] Si veda JACOBELLI 1990.
[9] Ad esempio in Marocco, si vedrà meglio avanti, la presenza di musicisti effeminati nell’area di Fes e Meknes è attestata dal Quattrocento, e lì ancor oggi costoro prestano la propria opera nella parte femminile delle cerimonie nuziali. Tuttavia lo stesso Edward Westermarck, che ha dedicato estrema e precoce attenzione alla storia dell’omosessualità (si veda WESTERMARCK 1917: II, 456-489, “Homosexual love”), nella sua pur dettagliatissima etnografia sulle cerimonie di nozze in Marocco (WESTERMARCK 1914) non fa cenno alcuno alla presenza e al ruolo dei musicisti effeminati. E neanche Victor Crapanzano, cui pure si deve una testimonianza sull’argomento (CRAPANZANO 1973: xi-xiv), che parrebbe rilevante per la sua prospettiva etnopsichiatrica, tuttavia non lo menziona che a margine della sua trattazione. Invece lo spazio dedicato agli effeminati in questo libro, e in specie in questo primo capitolo, è decisamente sovradimensionato, sul piano proporzionale, rispetto a quello dedicato alle donne. Ma colma un vuoto di conoscenza, un’assenza di letteratura che rendono necessaria, per la comprensione del loro ruolo, una specifica attenzione, e un tentativo di inquadramento del fenomeno kosovaro in un quadro più ampio.
il DVD
Il film è il prodotto della selezione e del montaggio di riprese in 16/9, realizzate a partire dal 2008 con l’intenzione di ricavarne un film sulla musica delle donne e degli effeminati rom del Kosovo. Ad esse si aggiungono altri materiali di diversa natura e qualità: appunti filmici, in 4/3, girati nell’arco di un ventennio tra i rom del Kosovo, in Kosovo e in Italia. Parte delle riprese sono interviste, discorsi sulla musica, esecuzioni private e dimostrative del repertorio: l’occasione è determinata dalla presenza delle apparecchiature di ripresa; danno conto del lavoro etnomusicologico svolto con dei testimoni specialmente qualificati di quelle tradizioni. Un’altra parte del girato documenta invece accadimenti non determinati dalla presenza del ricercatore e delle sue apparecchiature: feste di nozze e di circoncisione, contrattazioni coi clienti, in casa o in piazza, compravendita tra suonatori di pelli e mazzuoli per tamburo, etc. Anche qui la presenza delle macchine da ripresa era palese e accettata, ma non era la causa, la ragione dell’accadere degli eventi documentati.
Kajda
un documentario di Nico Staiti
Riprese: Michele Gurrieri, Silvia Bruni, Nico Staiti
Direzione tecnica: Michele Gurrieri
Montaggio: Mauricio Lleras
Durata: 73’
Suonatrici e suonatori:
Mirita Berisha
Selvynaz Bytyqi
Besik Qeli
Qelebije Gashi
Ryva Gashi
Sebahate Hasani
Uka Kerelai
Hatixhe Korlak
Isa Krasniqi
Miradije Meho
Shpetim Smacqi
Sabrija Zidi
Contenuti extra
4 tracce contenenti altrettanti filmati di esecuzioni complete di brani del repertorio, da parte di Hatixhe Korlak e Selvynaz Bytyqi; Mirita Berisha e Ryva Gashi; Qelebije Gashi e Miradije Meho; Isa Krasniqi e Qelebije Gashi.
Fotogallery
Kajda, il film
Etnomusicologo dell’Università di Bologna, Nico Staiti ha condotto ricerche etnomusicologiche, organologiche e di iconografia musicale in Italia meridionale e nei Balcani.
Si tratta di un lavoro di grande pregio nel quale sono compendiati i risultati di una complessa ricerca etnografica in cui la musica si intreccia con aspetti che attengono alla ritualità, all’organizzazione sociale e culturale delle comunità rom. Muovendo da una profonda analisi del background storico e culturale in cui si inseriscono i riti femminili, le cui prime attestazioni risalgono al XXXV sec. a. C. e che sono presenti in una vasta area, che va dall’India a tutto il Mediterraneo, Staiti nel suo saggio ricostruisce con dovizia di particolari il contesto storico ed etnografico in cui si inserisce la tradizione musicale kosovara, per giungere poi ad una descrizione analitica dell’apparato rituale e delle strutture musicali. (…) Si tratta insomma di forme musicali di grande complessità soprattutto sul piano ritmico, tanto che come riflette lo stesso autore: “la loro esistenza è sufficiente a mettere in crisi non soltanto la definizione di ritmo “irregolare” o aksàk, elaborata dall’etnomusicologia del Novecento, ma anche l’idea di organizzazione delle durate che appartiene alla maggior parte dei linguaggi musicali”. Salvatore Esposito, Blogfoolk