Arnaldo Bonzi, Domenico Ferraro
(a cura di)
Giacomo Pozzi Bellini
Viaggio in Sicilia (estate 1940)
2013, € 40
Formato 37x24, 144 pp.,102 foto in b/n
In offerta con il 5% di sconto
Nell’agosto e nel settembre del 1940 Pozzi Bellini è in Sicilia per un sopralluogo in vista di un film sulla colonizzazione del latifondo. E’ ospite, nella campagna attorno ad Enna, di Nino Savarese, incaricato della stesura del soggetto e della sceneggiatura, e con lo scrittore, tra i più amati da Sciascia, avvia un confronto sulla realtà dell’isola che da subito gli appare diversa dalle “forme, tradizionali e troppo false, di una Sicilia conosciuta soltanto sui libri”. Nel clima di un vasto consenso sulla riforma agraria, che per una breve stagione suscitò l’interesse di altri intellettuali siciliani come Guttuso, Cocchiara e Vann’Antò, attorno al progetto del film sono coinvolti, a diverso titolo, letterati e scrittori come Emilio Cecchi, Enrico Falqui e Carlo Emilio Gadda, fino a lambire più volte il nome di Elio Vittorini che, amico di Pozzi Bellini, due anni dopo avrebbe raccontato il suo ritorno nella terra dei padri in Conversazione in Sicilia.
Di quel progetto, poi non realizzato, restano circa cinquecento fotografie che, concepite come semplici “appunti visivi”, nella loro straordinaria bellezza rivelano una rara capacità di osservazione e la maestria insuperabile del fotografo che Pozzi Bellini sarebbe diventato una volta preso atto dell’impossibilità di continuare a occuparsi di cinema. Un’ampia selezione di queste fotografie, amate tra gli altri da Enzo Sellerio e Vincenzo Consolo, è ora pubblicata, a settant’anni dalla loro realizzazione, secondo criteri fissati dallo stesso autore che più volte, nel corso della sua vita, ha cercato un editore per raccontare, in un libro, il suo viaggio in Sicilia.
dall'introduzione di Domenico Ferraro
Domenico Ferraro, Il viaggio in Sicilia di Giacomo Pozzi Bellini
“Ho cominciato a stampare le fotografie e tra queste ce ne sono alcune di veramente sorprendenti e sia le persone come le cose come i paesaggi contenuti nel rettangolo del fotogramma, divenute se si vuole elementi più terreni, hanno accresciuto la mia fede nella possibilità di questo film”: così si esprimeva, in una lettera del 28 agosto 1940, Giacomo Pozzi Bellini, di ritorno dalla Sicilia dove si era recato per un sopralluogo in vista di un film per il quale il destinatario della lettera, Nino Savarese, doveva scrivere il soggetto[1]. Converrà però raccontare per ordine la vicenda al fine di inquadrare nel suo contesto questa straordinaria campagna fotografica, finora del tutto inedita salvo qualche rara immagine.
La formazione di un regista
“Irregolare, per vocazione, ad ogni conformismo”[2], Pozzi Bellini era cresciuto a Firenze negli ambienti della rivista “Solaria” che, fondata nel 1926 da Alberto Carocci, guardava alla formazione di una nuova civiltà letteraria, “in equilibrio tra avanguardia e tradizione, aperta alla letteratura europea e ai problemi della modernità ma consapevole del valore della classicità”[3]. Espressione dell’attenzione rivolta anche ad altre forme espressive, nelle quali più facilmente poteva riconoscersi quel giovane che muoveva i suoi primi passi come regista di teatro, è il numero monografico che nel marzo del 1927 la rivista dedica al cinema[4]. Attorno a “Solaria” si ritrovano scrittori come Eugenio Montale, Elio Vittorini e Carlo Emilio Gadda, con i quali Pozzi Bellini avviava duraturi rapporti di amicizia[5], mentre frequentava anche pittori e musicisti, come Guido Peyron, Baccio Maria Bacci e Luigi Dallapiccola[6], a riprova di quanto diffuso fosse quel “fervore artistico” ricordato da Ernesto Treccani ripensando agli anni della sua formazione quando “uno si legava all’altro anche perché eravamo tutti così giovani e sentivamo molto fortemente l’interdisciplinarietà. E questo si rifletteva anche nei nostri rapporti, rendeva molto ricco lo scambio di esperienze che non potrei definire come eclettismo, ma piuttosto come interesse globale per la pittura e l’arte tenendo conto che c’era il fascismo e che tutto quello che noi volevamo era proprio il contrario dell’autarchia fascista”[7].
A quegli anni risale anche l’amicizia con Emilio Cecchi, tra i nomi di maggior prestigio della critica letteraria dell’epoca, fondatore e condirettore tra l’altro della rivista “La Ronda” i cui collaboratori erano poi confluiti in “Solaria”. Tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, promosso da Benedetto Croce dopo l’assassinio di Matteotti, Cecchi si interessava di letteratura e pittura ma aveva esteso presto la sua attenzione anche al cinema. Dal 1932 al 1933 è direttore artistico della Cines dove imprime una svolta alla produzione, orientandola verso il cinema d’arte e il documentario che, assieme a una diversa impostazione della sceneggiatura, dovevano a suo parere rimediare ai punti deboli della cinematografia italiana, vale a dire l’osservazione della realtà e la capacità di racconto[8]. Sotto la sua direzione, la Cines produce numerosi documentari a firma di giovani già affermati, come Blasetti, e altri che lo saranno presto, come Bragaglia e Matarazzo, poi tra le giovani leve del “Centro sperimentale di Cinematografia”. Cecchi era stato chiamato alla Cines dal Direttore Generale Lodovico Toeplitz che dirà che a suggerirgli il nome era stato il suo assistente, Giacomo Pozzi Bellini, che evidentemente condivideva le idee di innovazione avanzate dal critico dalle pagine dei giornali ai quali collaborava[9]. Tra l’altro, cogliendone l’inquietudine che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, Toeplitz descrive Pozzi Bellini come “un giovane colto e intelligente ma con un senso critico talmente fiorentino, cioè arzigogolato, che gli veniva fatto regolarmente di distruggere l’indomani tutto quello che oggi gli era sembrato giusto”[10]. Dichiarando che gli era stato utile perché “conosceva tutti nell’ambiente, dai più importanti ai più modesti”, Toeplitz commentava anche che “avrebbe avuto la possibilità di fare alla Cines una brillante carriera se il suo spirito di bastian contrario, un po’ presuntuoso, non gli avesse alienato l’animo anche di quelli che avrebbero dovuto essergli riconoscenti”[11].
Dalle memorie di Toeplitz abbiamo così notizia di un giovane immerso nel cinema italiano che, grazie al ruolo che occupa in un’importante casa di produzione e al rapporto in qualche modo privilegiato con Cecchi, allarga ulteriormente le proprie conoscenze. Cecchi era allora intento a tradurre in pratica le sue idee riguardo al rinnovamento del cinema con film che dovevano staccarsi, nello stile e nei dialoghi, dal linguaggio magniloquente ed irreale delle pellicole del tempo per avvicinarsi il più possibile a una lingua diretta e colloquiale: un tasso di realtà che si accentua nelle opere degli autori più giovani che, per il tramite di riprese in esterni e l’utilizzo di gente comune al posto degli attori, facevano vedere un’Italia più marginale e popolare. Anche alla luce dei suoi interessi e del suo stesso percorso professionale, Cecchi guardava al cinema, in particolare, come a un’arte che poteva costituirsi come punto di incontro tra competenze diverse, da mobilitare per la realizzazione di un prodotto di qualità. Da qui il coinvolgimento di scultori, pittori e musicisti, nella realizzazione dei “suoi” film, accanto a numerosi letterati: le scenografie di Patatrac di Gennaro Righelli, del 1931, sono, ad esempio, di Carlo Levi[12] al quale Pozzi Bellini sarà legato anche nel Dopoguerra.
(…) Alla Cines Pozzi Bellini lavorava come sceneggiatore con Mario Soldati, chiamato da Cecchi che condivideva con lui l’interesse per la letteratura americana. Il brillante autore di Salmance, i racconti d’esordio del 1929, era allora privo di un’occupazione, inquieto e lontano dalla politica, al pari con ogni probabilità di Pozzi Bellini. Il suo ingresso nel mondo della celluloide avvenne controvoglia (“il cinema per me era poco meno della galera”, dirà anni dopo), motivato per lo più da ragioni economiche (“vivevo con centoventi lire al mese, mentre alla Cines ne guadagnavo milleduecento”[13]). Tra i suoi primi lavori la sceneggiatura de La tavola dei poveri di Blasetti del 1932, tratta da un soggetto di Raffaele Viviani con il quale Soldati ricorderà di essere stato chiuso da Cecchi “in una stanza, per tre mesi, per scrivere la sceneggiatura”[14]. Il fallimento al botteghino di Acciaio segnò anche la fine dell’esperienza alla Cines di Mario Soldati che, prima di esserne allontanato, aveva lavorato alla sceneggiatura de Gli uomini che mascalzoni… di Mario Camerini che consacrava come divo cinematografico Vittorio De Sica, fino ad allora noto come attore di teatro: un film girato interamente in esterni e ambientato nella Milano popolare che, assieme a 1860 di Alessandro Blasetti, è tra le più evidenti attestazioni della politica di sperimentazione avviata da Cecchi. I due film, infatti, sono segnati allo stesso modo dalla combinazione tra lo stile “referenziale” del documentario e quello “narrativo” del cinema hollywoodiano e, sia pure in modo diverso, risultano dominati da atmosfere e temi destinati a diventare predominanti nel dopoguerra[15].
(…) Tra le suggestioni e gli impulsi di un composito ambiente letterario e artistico che, guardando alle espressioni più innovative della cultura internazionale, si poneva in una posizione di latente dissenso verso la politica del regime o, comunque, di insofferenza nei confronti delle sue chiusure, maturava così l’esordio come regista di Pozzi Bellini con Il pianto delle zitelle, del 1939, “entrato di prepotenza nella storia del cinema italiano”, secondo il giudizio di Michelangelo Antonioni che ne esalterà il taglio “preciso e sicuro” delle inquadrature capaci di restituire appieno “il senso di una moltitudine in preda a tale rapimento mistico, da averne paura”[16]. Nato con ogni probabilità da un suggerimento di Cecchi[17], che con Pozzi Bellini firmerà anche la sceneggiatura, il film, dedicato a un ancestrale rito devozionale che si svolge tuttora nei pressi di Vallepietra, apparve come una novità dirompente. Sul finire del decennio la produzione di documentari, incoraggiata dal Regime come strumento di propaganda, indulgeva infatti su raffigurazioni di pura “ornamentalità retorica”, con il Duce colto tra campagnoli e maestranze FIAT o intento a inaugurare aziende, colonie estive e villaggi, senza mai denotare alcuna intenzione conoscitiva perché quel cinema aveva “il solo compito di tradurre i dettagli in simboli”, utili ad esaltare il regime[18]. Al pubblico italiano, abituato alle immagini edificanti distribuite dai cine-giornali dell’Istituto Luce e dell’appena costituita Incom, veniva all’improvviso svelata l’esistenza di un modo altro e diverso eppure parte del suo presente, che si manifestava in una dimensione del tutto incognita, straniante e sconvolgente allo stesso tempo.
[1] G. Pozzi Bellini a N. Savarese, 28 agosto 1940, in L. Termine, Un eretico innocente: la sceneggiatura censurata di Nino Savarese, Sellerio, Palermo 1987, p. 113.
[2] A. Bonsanti, introduzione a Giacomo Pozzi Bellini: trentacinque anni di fotografia 1940-1975, De Luca editore, Roma, 1982, p. 7 (catalogo della mostra tenutasi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, 11 dicembre 1982-13 febbraio 1983).
[3] Cfr. R. Fiorini, Le strade della prosa, in G. Fenocchio, a cura di, Il Novecento. 1 Da Pascoli a Montale, La letteratura italiana, diretta da E. Raimondi, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 232.
[4] Cfr. V. Santoro, Letterati al cinema. “Solaria”, marzo 1927, Liguori, Napoli, 2012.
[5] Grazie ad Arnaldo Bonzi, già assistente di Pozzi Bellini e ora attento custode del suo archivio presso la Graphicolor di Roma, ho avuto modo di consultare altri materiali tra i quali le edizioni “numerate” di diverse opere di Eugenio Montale con dediche affettuose all’amico “Jack” Pozzi Bellini.
[6] Dei rapporti con il musicista istriano, ma fiorentino d’adozione, è testimonianza il Fondo Pozzi Bellini dell’Archivio del Gabinetto Viesseux in cui sono conservate 29 lettere, datate tra il 1930 e il 1932, di Pozzi Bellini a Dallapiccola, 41 fotografie in cui sono ritratti, tra gli altri, Emilio Cecchi, Alberto Giacometti, Eugène Ionesco, Alberto Moravia, Jean Renoir, Umberto Saba, Jean Paul Sartre e Ardengo Soffici, e manoscritti autografi del musicista: sul fondo, costituito da una donazione dello stesso Pozzi Bellini nel 1978, cfr. Vieusseux e il Vieusseux, storia e cronaca di un istituto di cultura e del suo fondatore, (catalogo della mostra, tenutasi a Palazzo Strozzi dal 20 ottobre al 10 dicembre 1979), Mori, Firenze, 1979, p. 111; E. Capannelli, E. Insabato, Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra '800 e '900. L'area fiorentina, Olschki, Firenze, 1996, pp. 509-510.
[7] E. Treccani, Un’amicizia lunga una vita, in M. Grazia Gregori, a cura di, Il Piccolo Teatro di Milano: cinquant’anni di cultura e spettacoli, Leonardo Arte, Milano, 1997, pp. 13-14.
[8] A. Faccioli, a cura di, Schermi di regime: Cinema italiano degli anni trenta: la produzione e i generi, Marsilio, Venezia, 2010, p. 65. Sui limiti dell’idea di cinema di Cecchi, cfr. V. Buccheri, Stile Cines: studi sul cinema italiano 1930-1934, Vita e Pensiero, Milano, 2004, pp. 19-23.
[9] Cfr. A. Redi, a cura di, Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia, 1979, p. 89.
[10] C. Bo, Emilio Cecchi: un discorso, una tavola rotonda, una mostra, Gabinetto Vissieux, 1984, p. 33.
[11] F. Faldini, G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Cineteca di Bologna, Bologna, 2009, p. 33-34 dove è riportata la testimonianza del direttore della Cines.
[12] F. De Donato, S. D’Amaro, Un torinese del sud: Carlo Levi, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2001, p. 81.
[13] M. Onofri, Introduzione a M. Soldati, El paseo de Gracia, Mondadori, Milano, 2009, p. XXIV-V.
[14] E. Morreale, a cura di, Mario Soldati e il cinema, Donzelli, Roma, 2009, pp. 89-91.
[15] V. Buccheri, Stile Cines, cit., p. 105.
[16] Così si espresse Antonioni in Giacomo Pozzi Bellini: trentacinque anni di fotografia, cit. p. 9.
[17] L’8 giugno del 1934 Emilio Cecchi aveva pubblicato un articolo su “Il corriere della sera” dal titolo Il pellegrinaggio del Pianto a Vallepietra, che aveva seguito di persona come attestato anche dalle sue foto, conservate nell’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Viesseux, pubblicate in P. E. Simeoni, a cura di, Fede e tradizione alla Santissima Trinità di Vallepietra 1881-2006, Artemide, Roma, 2006, pp. 196-7.
[18] E. Veronesi, Cinema e lavoro: la rappresentazione dell’identità adulta tra miti, successo e precarietà, Effatà Edizioni, Torino, 2004, p. 101, con numerosi rimandi a M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Vallecchi, Firenze, 1979.
Fotogallery
Autore di un documentario, Il pianto delle zitelle, secondo Antonioni “entrato di prepotenza nella storia del cinema italiano”, e poi tra i più apprezzati fotografi del dopoguerra, Pozzi Bellini ha attraversato la cultura italiana del Novecento, con rapporti di amicizia e lavoro con numerosi autori, da Montale a Moravia, da Arbasino a Guttuso, da Jacques Prévert a Jean Renoir.
Una Sicilia drammatica, di lotta ancestrale fra uomo e natura, di civiltà segreta e dimienticata. Inedite (tranne alcune che Vittorini usò per la sua Conversazione in Sicilia) queste immagini riemergono dopo settant'anni in un volume. A riprova che il Neorealismo del dopoguerra affondava le sue radici in quella generazione di intellettuali che all'ombra del regime compì il suo "lungo viaggio attraverso il Fascismo", forse il vero viaggio che questo splendido volume racconta. Michele Smargiassi, La Repubblica
La densa introduzione di Domenico Ferraro scava con puntualità nella genesi del lavoro di Pozzi Bellini, illustre fotografo che ha attraversato la cultura italiana del secolo scorso, ne traccia la personalità, ricostruisce meticolosamente il clima politico e culturale che fa da sfondo alla sua avventura estetica, racconta le traversie di questi scatti d’autore in cerca di editore. Ciro De Rosa, Blogfoolk
Un giovane regista che nel 1940 scoprì per primo l’isola che non c’era: la Sicilia. Non era prevista dalla retorica fascista quella terra di drammi e di fatica, di umanità e di fuoco. (...) Pozzi Bellini lascerà il cinema per la fotografia, nel dopoguerra sarà sia un documentatore d’arte che un reporter. Di lui è stato detto che possedeva un senso istintivo per l’inquadratura. Potrete farvene un’idea. Michele Smargiassi, Fotocrazia