Antonino Pennisi
L'isola timida
Forme di vita nella Sicilia che cambia (1970-2005)
2008, € 27
Formato 23.5x16.5, 162 foto in b/n e a colori, pp. 224
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La timidezza delle isole è una metafora dei fratelli Mancuso, musicisti passionali di una Sicilia trasformatasi da terra di emigrazione in terra di immigrazione. Timide sono le isole quando, nell'emergere da mare a terra e da terra a mare, si incontrano e tremano negli infiniti ritorni di nuovi e vecchi mutanti.
Nel mezzo di questi spazi musicati, affiorano le fotografie di Antonino Pennisi, filosofo per mestiere e fotografo per vocazione. Secondo la sua esperienza ciò che perdiamo della fotografia nel momento in cui la scattiamo è di gran lunga più di ciò che ci riserva come reale testimonianza di storie materiali nascoste: "volevo fotografare l'intensità degli occhi di un contadino durante le lotte sociali degli anni Settanta, e, adesso, vedo per la prima volta il suo abbigliamento, i suoi mezzi di trasporto, gli strumenti che usava, il contesto che sfugge all'occhio creativo". Così tutta la Sicilia fotografata per decenni non esiste più: è cronaca di ciò che forse ancora accade ma che non riusciamo a riconoscere con l'evidenza naturale propria della fotografia.
Con introduzione di Alberto Pellegrino, uno scritto di Maria Attanasio e un DVD dove molte altre fotografie, anche di Paola Pennisi, scorrono sulle musiche dei Fratelli Mancuso, il volume mira a lasciare una microstoria, una traccia appena, di questa cecità involontaria ed eterna del presente, di ciò che non riuscivamo a vedere allora e che adesso è troppo tardi per poter capire.
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(…) Il lavoro fotografico di Antonino Pennisi si inserisce a pieno diritto e con una propria originalità in questa grande tradizione isolana della seconda metà del Novecento, sia per le tematiche affrontate con partecipata umanità, sia per uno stile che rivela una grande attenzione per la composizione dell’immagine e un particolare senso dell’inquadratura, una predilezione per i primi e primissimi piani, una cura per il dettaglio mai casuale ma occasione per un approfondimento narrativo. Pennisi predilige il bianco e nero con il quale ottiene risultati di grande forza espressiva, anche se a volte è presente il colore usato con poche tonalità o addirittura monocromatico, per evocare la poesia di un paesaggio che si distende come un mare di terra sotto cieli segnati da cumuli o sciami di nuvole, per marcare dei volti, per trasmettere un segno più intenso all’interno di un dato contesto; a volte il colore è introdotto all’interno dell’immagine fino a diventare metafora, usata in modo talmente esplicito da sfidare il pericolo della retorica. In alcuni casi, attraverso la contaminazione elettronica, Pennisi adotta soluzioni ancora più efficaci sul piano espressivo, quando il colore (spesso il rosso) diventa elemento interno all’inquadratura per puntualizzare e sottolineare la scansione dei bianchi, dei neri e dei grigi: può essere un fiore o un quadro in un interno, l’abito di un chierichetto o il costume di una bambina che fraziona i bianchi di una processione, il manto azzurro di una madonna contadina o un fuoco che arde nella notte, l’insegna di un negozio o un cielo di nuvole che “pesa” sulla montagna e sul bianco di un gregge in transito nella valle.
Quella di Pennisi è una fotografia che punta direttamente all’uomo e che predilige soprattutto il ritratto e la ricostruzione dei contesti entro i quali colloca i suoi personaggi, i protagonisti delle sue storie iconiche, perché l’autore non nasconde le sue ambizioni di narratore che aspira a racchiudere una complessa vicenda umana entro lo spazio angusto di una singola inquadratura.
Nello stesso tempo egli ama comporre le singole immagini secondo rigorose sequenze, che seguono un percorso progettato per costruire attraverso tante storie individuali una megastoria collettiva, scandita in sette capitoli, dove si parla di lavoro e di lotta, di religione e di speranze degli umili, del fiorire di un sorriso che dà sapore alla nostra esistenza, della vita che scorre entro le rive di un grande fiume per poi sfociare nella morte.
È un cammino che parte da un passato ormai consegnato alla storia, ma ancora vivo nella memoria, per arrivare ad un presente che si sta già addentrando in un futuro fatto di paure, contraddizioni, aspettative di vita, un futuro dove sta nascendo un nuovo pianetadonna, dove si affacciano nuove generazioni che stanno alzando il capo da una condizione di miseria e di emarginazione, chiedendo parità di diritti e pari dignità di lavoro e di vita.
A sottolineare questa volontà narrativa c’è la felice intuizione di collocare all’interno dei singoli capitoli i testi poetici di Enzo e Lorenzo Mancuso; non si tratta di un semplice commento, di un’appendice di arredamento, ma di una stretta simbiosi tra parola e immagine, un modo di affrontare le stesse tematiche con identica passione, partecipazione, sensibilità, ma secondo la diversa ottica della poesia che infine diventa canto, secondo l’insegnamento di un grande maestro come Mario Giacomelli, che per primo ha aperto la strada all’impiego delle immagini per “raccontare” poesia.
Nel narrare un mondo apparentemente lontano da quello del fotografo marchigiano, come può apparire la Sicilia, si può dimostrare come sia possibile armonizzare generi artistici diversi, a conferma dell’universalità del sentimento e del pensiero umano, di una perfetta simbiosi fra due modi di guardare il mondo attraverso l’occhio sensibile del fotografo, oppure attraverso i versi e il pentagramma di due straordinari “cantastorie”.
Come nelle immagini di Pennisi, le parole del quotidiano diventano nelle composizioni dei Mancuso poesia viva e pregnante, acquistano la forza e il calore che nasce dalla vita stessa, parlano di amore e di dolore, di speranze e di sogni, di bellezza femminile e della gioia di godere della natura, del mare, del sole, della vita stessa. In questa circolano ideali fragili come lievi “ali di carta”, ma forti come la terra siciliana bruciata dal sole, dove ha avuto inizio la loro storia prima di affrontare le strade del mondo e dove ritornano sempre per ritrovare la linfa profonda del loro sentire.
Sette “storie” per un unico racconto
1. Paesaggi del conflitto. Siamo negli anni Settanta, tempi di lotta epica e dura, quando ci si batte per il più fondamentale dei diritti. Volti scavati dalla fatica, volti di contadini, operai, minatori che lottano per un Sud migliore, uomini che “quando s’incontrano/ non parlano/ ma di silenzio in silenzio/ nel canto e nel pianto tremano”. Ma “ci sono momenti/ che portano in grembo/ feroci belve addormentate/ sotto montagne di tempeste”, allora questi uomini dai volti decisi, questi giovani apparentemente fragili, queste donne che conoscono il peso della fatica riempiono le strade e le piazze per manifestare contro l’emigrazione, le retribuzioni da fame, una povertà che si materializza nei “barboni” abbandonati lungo le strade dell’indifferenza, che si nutre del “pranzo dei poveri” elargito dalla pubblica elemosina (“sono la foglia/ caduta dal tuo ramo/ il primo a fiorire/ e a morire”).
Pennisi documenta tutto questo con sofferta partecipazione, penetra nel ventre delle miniere, entra nel cuore delle manifestazioni, cerca nei volti i segni della sofferenza, ma anche il sorriso e la dignità della speranza, porta il suo obiettivo in mezzo a uomini forti come un albero che “resiste a ogni tempesta … che arde a ogni ingiustizia/e a ogni umiliazione,/crudeltà, sopraffazione”, uomini che sanno “vivere senza malizia/abbracciando il giorno che viene” anche se non sanno cosa riserva loro il futuro, uomini che vivono fieri sotto questo splendido “cielo che hai miliardi di rondini”, sopra questa “terra che hai miliardi di voci”.
2. Cuius regio, eius religio. È questa una delle “storie” più belle dell’intero volume, perché Antonino Pennisi riesce a collocarsi in quel filone della fotografia religiosa inaugurato in Italia da Franco Pinna ed esaltato, sul piano internazionale, dalla spagnola Cristina Garcia Rodero, portandovi la sua personale poetica dell’immagine, il suo originale culto della memoria, la sua profonda intuizione che nell’anima religiosa popolare mescolano in perfetta simbiosi dolore e speranza: un’idea che trova la propria sintesi nello splendido primo piano di un’anziana donna, dove ogni piega del tempo segna un dolore antico, una memoria di affetti perduti, una solitudine dello sguardo che cerca consolazione e speranza oltre i confini dello spazio e del tempo. Allora la poesia è un fiore rosso sulla piccola edicola della Madonna, lo snodarsi di processioni lungo strade dal lastricato antico come questi culti popolari, la fresca ingenuità dei bambini ancora capaci di vivere come una festa i loro abiti religiosi, l’aristocratica ricerca di un dettaglio in grado di sottolineare una fede ingenua e severa; siamo di fronte a una poesia iconica che esce rafforzata e sottolineata dai versi dei Mancuso, fusi in perfetta armonia con le immagini di ogni sequenza. Non sono in grado di dire quanto rimanga, sotto la spinta incalzante della secolarizzazione, di questa religiosità popolare degli anni Settanta, ma le ultime immagini, scattate a Sutera nel 2003, conservano il sapore e i volti delle sacre rappresentazioni medioevali, là dove nel cuore della Sicilia la religiosità non è ancora diventata spettacolo o preda dei tour operator turistici.
3. Storia sociale del sorriso. Questa “storia” è dedicata ai bambini, alla loro ingenua voglia di vivere, ai loro sorrisi che la dura legge del quotidiano non ha ancora soffocato, ai loro occhi che ti fissano con sguardi di limpida innocenza, che guardano la vita passare dietro i vetri di una finestra, che amano ancora il gioco celebrato per le strade e nelle piazze, bambini che sanno essere festosi nell’abbandono dei vicoli, dentro la povertà dei loro abiti, persino vivendo le loro avventure nello squallore delle discariche, bambini che già conoscono la dura legge del lavoro al fianco di un gregge, bambine in rosso dentro il bianco e nero quasi una citazione colta dello Spielberg di Schindler’s List. Anche in questo caso soltanto poesia della memoria? Rappresentazione di un mondo ormai perduto per sempre?
Le immagini scattate da Pennisi tra il 2001 e il 2004 ci mostrano gli stessi sguardi di gioia innocente, gli stessi giochi consumati tra i vicoli o vissuti nella notte attorno a un falò, gli stessi occhi protesi verso il futuro. Quindi esiste ancora la speranza che “venisse il tempo/ di rose e ciliegie rosse/ e di mani gonfie/ che non coprano gli occhi./ Venisse il tempo/ di non più scavare fosse/ e di trascinare fiori/ alle tombe degli innocenti…Venisse il tempo/ che una sola parola/ bastasse a riempire un cuore/ grande come una casa”, un tempo in cui i bambini non siano più costretti a “guardare il mondo di nascosto”, perché anche “da una camicia lacera/può nascere il sole”.
4. Forme di vita. I protagonisti di questa sezione sono gli uomini della strada, quelli destinati a non lasciare un’impronta nel panorama politico e sociale di un’epoca, eppure appartenenti a quella umanità che scrive la storia sulle pagine della propria pelle, chiusi in un silenzio duro da masticare, ma pronto a sciogliersi al suono di una musica, di un canto, di una semplice parola.
Un’umanità disseminata in un lungo arco di tempo (1972-2004) che conserva tuttavia le stigmate del proprio presente e del proprio futuro: giovani parcheggiati nelle piazze e nei bar, pescatori con il volto scavato dalla salsedine, vecchi campanari sull’orlo dell’estinzione, anziani contadini segnati dal sole, pittori di provincia che non approderanno mai in un museo, suonatori ambulanti che fanno anche i “capperai”, portatori di handicap lungo le strade e le piazze di queste assolate borgate, pranzi di poveri per alleviare una miseria antica e per marcare ancora le distanze fra le classi sociali. L’obiettivo di Pennisi cerca di carpire il segreto di questi volti segnati dalla fatica dei campi, delle loro donne, dei loro figli in attesa che passi un’occasione di riscatto. L’autore è sempre attento a non isolare le persone dal loro ambiente sociale, è sempre puntuale nel cogliere uno sguardo, un’espressione, impegnato a fermare nel tempo questa umanità che nasce “con il volto segnato dalla sorte/ volto che l’oscurità stravolge/ con un’ombra di morte”, questi uomini che “hanno una casa senza tetto né porta/ una strada corta dove soltanto passa/ chi da quella via domani non ritorna”, eppure hanno coraggio e fede “come soldatini di creta che vanno alla guerra”, cercano l’abbraccio di una donna, il sorriso di un bambino, il saluto del passante che non li esclude con la propria indifferenza.
5. Le metafisiche della morte. Qui la narrazione di Pennisi si fa dura e complessa a partire dalla metafora esplicitamente dichiarata dell’angelo bianco che si alza fra le tombe sotto un cielo corrucciato di nuvole, è un’elegia delle “cose scadute”, delle memorie di una giovinezza vissuta sul mare che parla “di un tempo dolce/ dolce e lontano/ di quando tutto era un canto/ chiaro e felice”. Ora rimangono le “macerie che un tempo/ erano case/ parole che si arrampicano scalze/ fino alla fonte/ delle stelle spente”: c’è come una sospensione del tempo, un interrogarsi di bellissimi primi piani, di sguardi che sembrano scrutare fuori dalle inquadrature “una primavera/ senza neanche un fiore/ una strada/ senza argini:/ Un canto/ senza musica e parole/ che affiora all’anima/ e soffocato muore”, mentre la mente pensa a quante cose hanno visto quegli occhi. C’è tutta un’umanità parcheggiata dinanzi alle porte di queste case, di queste piazze solitarie, di queste strade di paese lastricate di pietre, a volte volutamente deformate dall’obiettivo secondo linee rigonfie di dolore, oppure convergenti verso l’alto, quasi a voler escludere un ultimo raggio di luce (“come è sola la strada a quest’ora/ chi doveva partire è partito/ e chi doveva morire è morto/ e chi doveva piangere ha pianto”).
Le immagini di Pennisi, in questa elegia degli ultimi, sembrano tracciare un testamento spirituale in piena sintonia con i versi dei Mancuso: “se domani io morissi…lascerei il mio cuore/ a chi è triste e sconsolato/ a chi è stato abbandonato/ come Cristo Crocifisso,/ senza croce senza storia,/ senza la divina gloria”.
6. Il futuro al femminile. È questo un omaggio all’universo-donna, a questa presenza forte e gentile che anima la terra siciliana come un arcobaleno di speranza: nobili volti di donna segnati dalle pieghe del tempo, bambine dallo sguardo che ti penetra l’anima con la sua ingenua freschezza, gli occhi profondi di un’adolescente (“viene l’amore mio/ il cielo si inchina e la saluta/ perché vede nei suoi occhi/ l’anima che un giorno ha perduto”), la bellezza fiera e misteriosa di una giovane donna (“bella Maria, quante scale/ in fiamme salirei,/ quante volte perderei i sensi/ per te Maria … bella Maria, sei il fiume/ che dentro mi attraversa/ più scorre e più accresce la mia sete”).
È una Sicilia diversa quella disegnata dall’obiettivo di Pennisi che scava in profondità per portare alla luce, come un poeta-archeologo, una nuova realtà siciliana coniugata al femminile e pronta a confrontarsi con una realtà più antica.
7. Melting pot. L’evoluzione della specie. L’ultimo capitolo di questo “romanzo” siciliano è di Paola Pennisi, attratta dalle grandi trasformazioni antropologiche e sociologiche che caratterizzano la sua terra. Anche questo è uno sguardo mai freddo e distaccato, che si lascia affascinare da un’umanità nuova che sta nascendo sotto i suoi occhi. È una Sicilia antica che si confronta con la nuova: tutte queste foto sono, infatti, comprese tra il 2001 e il 2005. È anche l’omaggio conclusivo a questa isola timida, delicata come una bambina, con la sua natura in parte ancora intatta e capace di donare il suo vino profumato, i suoi fichi e le mandorle dorate, i suoi bianchi gelsi e le olive nere, i rossi melograni e il miele che sgorga dai favi. Rimane ancora intatta una specie di voluttà materica, che si traduce nel desiderio di “impastare pane e versi”, umanità e fotografia. E proprio da questo “impasto” scaturisce un’umanità nuova dove i volti antichi della Sicilia di Ulisse e delle sirene, della Magna Grecia e degli Arabi, dei Normanni e degli Spagnoli si confrontano con le nuove etnìe che arrivano da lontano: dall’Asia e dall’Africa, dalla Cina e dall’Est Europeo (“certe sere vedo navi/ risalire letti asciutti/ hanno la pancia bagnata/ vele spiegate nella notte/ il timone è una spina/ di fior di rosa”). I mercati antichi come la storia dell’isola si confrontano con le bancarelle degli immigrati, dove si vende di tutto: dai tappeti agli occhiali, dall’abbigliamento alle collane. Ma nuova è anche questa umanità fatta di pochi anziani, di molti bambini, di giovani uomini e giovani donne, di adolescenti dallo sguardo profondo e misterioso (“Dove sei fiore d’Aprile gentile?/ Chi si nutre ora del tuo miele?…/Ah se fossi certo che tu esisti/ di qua o di là oltre il mare./ Se potessi un momento ascoltare/ quel che l’anima tua suole cantare./ In quale cielo ti posso cercare/ stella, oh stella che mai, mai appari?”). Lo sguardo e il sorriso di questi bambini, la bellezza nuova/antica di queste giovani donne, la voglia di esistere dei loro uomini si confrontano e si fondono con la gente della Sicilia per gettare le fondamenta di quella “evoluzione della specie” che non è soltanto antropologica, ma può anche essere culturale e spirituale (“Fraternità, fraternità/ Ah! Inchiodata all’anima/ che fa ogni mare navigabile/ ogni deserto una terra fertile/ ed ogni fronte/ una meta invidiabile./ D’ogni sospiro e/ d’ogni grido un canto utile/ di ogni stella una via possibile/ di ogni rabbia/ fuoco per cuocere/ la cruda creta/ di nuovi palpiti”).
Questo lungo percorso si conclude con un appello alla speranza, con “un canto forestiero/ in cerca di paesi/ appesi al filo/ dei miei sogni”: sono i sogni tradotti in immagini di un siciliano radicato nella sua terra come Antonino Pennisi; sono i sogni di Enzo e Lorenzo Mancuso, viaggiatori per destino e per vocazione, che sempre riapprodano a questa isola, timida e incantata, per rinverdire il senso della loro vita e della loro arte.
Fotogallery
Docente di discipline semiotiche e di Storia e tecnica del linguaggio fotografico all'università di Messina, Antonino Pennisi ha realizzato numerosi reportages, soprattutto in Sicilia, con pubblicazioni e personali in diverse città italiane ed europee.
Nativi di Sutera, nella loro trentennale carriera i Fratelli Mancuso hanno ricomposto i frammenti del patrimonio tradizionale siculo in un quadro espressivo del tutto originale.
un libro che propone un intreccio tra immagine, scrittura e sonorità musicali per una narrazione dedicata alla Sicilia, ma in realtà non solamente a questo luogo. Antonino Pennisi è un filosofo del linguaggio che da oltre trent'anni esce ogni giorno da casa in compagnia della sua macchina fotografica. Il risultato è la composizione di una galleria di immagini che sono fotografie, ma non nel senso che generalmente attribuiamo a questo termine, e sono racconto antropologico, ma non solamente: i segni e i simboli d'altronde, sono qui maneggiati con padronanza, e le interferenze semantiche e percettive, volute e ricercate. Paola Nicita, La repubblica
un libro che resta, che ci restituisce il sapore e l'odore della Sicilia, lontana dagli stereotipi, dalle manipolazioni turistiche, piena invece di dolore, di amore per la vita e, soprattutto, di conflitti. (...) E' la Sicilia del passato che ritorna sempre quando meno te lo aspetti e del futuro che è già a portata di mano nel volto del cambiamento femminile e degli immigrati che popolano le sue strade. E la musica dei Mancuso (...) restituisce emozione e rabbia. Michele Fumagallo, Il manifesto
Uno splendido volume fotografico per raccontare gli ultimi trent'anni di un'isola-paradigma attraverso suggestivi scatti (...). Immagini in bianco e nero e a colori che ritraggono con dirompente impatto emozionale i cambiamenti di luoghi e persone nella dialettica di contrapposti vecchi e nuovi stili di vita. (...) Una sinfonia di ritratti a tema che sono poesia e provocazione, documento sociologico, piccolo trattato di filosofia per gente comune, carezza/pugno alla memoria e alla visione (...) Integrano perfettamente, impreziosendola, questa imponente cartografia antropologica, sconfinato atto d'amore che si fa arte contemporanea, uno scritto ispirato di Maria Attanasio e, soprattutto, le musiche e i testi poetici dei Fratelli Mancuso, tra le più importanti espressioni del folk contemporaneo. Luca Ferrari,www.lucaferrari.net/articolo.php?ID=327
Con pazienza e meticolosità il suo obiettivo schiva banali folklorismi e guida oltre, verso un mondo che ormai quasi non esiste più, rivalutando un patrimonio di tradizioni e umanità. (...) giocando non tanto sul realismo quanto sulla forza evocativa delle immagini che "gelano" il singolo gesto. Enrico Vita, La Gazzetta del Sud
Il consiglio è di vedere subito il DVD allegato. Le immagini di trentacinque anni di vita siciliana impreziosite dallo spettacolare commento sonoro dei fratelli Mancuso. Leonardo Vietri, Mondomix