Annabella Rossi
Lettere da una tarantata
2015, € 18
Formato 21x15, pp. 185
In offerta con il 5% di sconto
“Queste lettere sono frutto di una corrispondenza intercorsa, dal ’59 al ’65 tra me e Anna, contadina, nata nel 1898 in un paese della provincia di Lecce. Il primo incontro con Anna avvenne nella cappella di S. Paolo in Galatina il 28 giugno 1959, durante la ricerca condotta da Ernesto De Martino sul tarantismo pugliese, alla quale partecipavo in qualità di intervistatrice. Nel luglio dello stesso anno la rividi nella sua casa e da quel giorno nacque tra noi un rapporto di amicizia. Cominciò così una corrispondenza, iniziata spontaneamente da parte della donna”.
Così Annabella Rossi presentava la prima edizione del volume, nel 1970, quando si viveva ancora in orizzonti aperti di speranze, pace e giustizia sociale, e aveva già a corredo il saggio di Tullio De Mauro, una magistrale analisi delle trasformazioni del linguaggio in Italia. Queste lettere-documento, presentate senza alcuna opera di selezione o montaggio, davano corpo all’intenzionalità di una protagonista del mondo magico del Mezzogiorno e le restituivano una vivida presenza. Il racconto autobiografico, sviluppato nella relazione epistolare, lasciava emergere una voce che, ‘sgradevole’ ad orecchie abituate ad altri registri espressivi, nel solo farsi ascoltare denunciava i limiti di meccanismi ideologici per cui gli appartenenti ai ceti più umili sono stati troppo spesso confinati in una condizione di esclusione, prima ancora che di subalternità, trasformando i potenziali impulsi di protesta in una muta rassegnazione. La seconda edizione è stata pubblicata venticinque anni dopo, con una densa introduzione di Paolo Apolito, in piena stagione di autoreferenziale antropologia postmodernista, con un'attenzione particolare dedicata alla scrittura, all’esperienza sul campo, alla riflessione critica sull’antropologia classica.
In un’epoca di pessimismi globali, dove sembra non esserci più nemmeno sicurezza riguardo al futuro dell’operare antropologico, viene ora proposta una nuova edizione, nella convinzione che possa illuminare ancora problemi non secondari della nostra contemporaneità. Le motivazioni etiche e la spinta conoscitiva del lavoro etnografico condotto da Annabella Rossi, condivise da Tullio De Mauro, sono ripercorse da Apolito in una nuova introduzione che, dai prodromi dell’antropologia dialogica agli esiti revivalistici di tanto interesse per la cultura popolare, ripropone come ineludibile per ogni ricerca il riconoscimento dell’umanità degli altri: la singolare, ricca e pregnante presenza di quanti ci stanno di fronte, destinati a sentirsi come “l’isolo in mezzo al mare” quando volgiamo loro le spalle.
Leggi l'introduzione di Paolo Apolito
Ogni anno ad agosto decine di migliaia di persone, in gran parte giovani, vanno in Salento per assistere e ballare ai concerti della taranta e in particolare a quello finale a Melpignano nel quadro della manifestazione Notte della taranta che da più di un quindicennio mantiene una capacità di richiamo di turismo musicale che non ha pari in Italia e forse in Europa.
La domanda, cui nessuno potrebbe rispondere con certezza, è quale idea hanno di quella musica e delle sue origini le decine di migliaia di ‘turisti della taranta’ che accorrono in Salento, indipendentemente dal fatto che li affascina, trascina, fa ballare notti e notti. E che è musica che ormai si trova da tutte le parti nei giri di incontri giovanili, in concerti, scuole di danza, gruppi spontanei. Sorta come gusto di nicchia del genere delle musiche etniche e popolari, è diventata in pochi anni di massa, pur rimanendo in una nicchia stagionale.
Molti salentini per parte loro, pur tra posizioni diversificate, vivono questo fenomeno con orgoglio e soddisfazione e in gran parte sanno bene che tutta l’effervescenza giovanile che si raccoglie ad agosto nella loro terra ha a che fare con una credenza e un culto di antiche origini, il tarantismo. Per alcuni davvero antiche, persino fantasticamente preistoriche, per altri databili intorno a secoli comunque lontani pur se raggiungibili dal punto di vista della documentazione storica, che farebbe risalire la nascita della taranta e del tarantismo al Medioevo delle crociate e poi alla modernità dello scontro-incontro con il cristianesimo. È difficile poi sapere tra i salentini più giovani, quanti sappiano che questa musica, proprio per la credenza a essa associata, quarant’anni fa era considerata anacronistica e plebea e che gli ultimi tarantati vivevano isolati, in condizioni di emarginazione locale e vergogna per il loro stato.
Ma soprattutto cosa ne pensano i giovani danzanti di agosto nessuno può saperlo con certezza. Molte cose penseranno, moltissime, magari senza l’ossessione dell’origine, che spesso grava su fenomeni culturali del genere e che talvolta pesa tanto da determinare comportamenti di appartenenza, esclusione, violenza persino.
L’identità e l’origine sono monete sonanti nella vita contemporanea e molto spesso in mercati violenti, per quanto quelle monete possano essere di lega falsa.
In verità, di taranta e tarantismo si parla molto in Italia e anche in Europa e da secoli. Se ne sono occupati tra i più grandi intellettuali, filosofi, medici, secondo prospettive e orizzonti ideologici vari. Nella seconda metà del Novecento se n’è parlato molto prima ma soprattutto dopo la pubblicazione nel 1961 di La terra del rimorso, capolavoro di Ernesto De Martino, uno dei libri più influenti della letteratura scientifica del Novecento. Questo libro è stato molto letto, chiosato e commentato, ha avuto una notevole fortuna editoriale nel campo della saggistica e continua a essere riedito, venduto, seguito, letto. Probabilmente un drappello non molto numeroso ma significativo delle persone che vanno ad agosto in Salento lo ha letto.
De Martino produsse una sorta di canone di interpretazione del tarantismo: nonostante il serrato dibattito che seguì la pubblicazione del libro ben oltre gli anni immediatamente successivi, e pur in quadri scientifici e ideologici notevolmente mutati dagli anni della sua prima pubblicazione, esso è rimasto sostanzialmente solido.
Da secoli nella terra del Salento e sicuramente già pienamente dispiegata alle soglie della modernità, sostiene De Martino, esisteva la credenza nel morso velenoso di un ragno, la taranta, che era in grado per la sua potenza venefica di far gravemente ammalare la vittima, fino a impedirle di svolgere la sua abituale vita attiva, di lavoro e partecipazione familiare e sociale, a causa degli effetti di estrema prostrazione che provocava. L’unico rimedio al veleno del morso di tale ragno, secondo la credenza, era una danza da eseguire come terapia, al ritmo più o meno ossessivo della pizzica, musica suonata con strumenti popolari che nel corso del tempo mutarono e negli ultimi decenni della sua vigenza consistevano in chitarra, organetto e soprattutto violino e tamburello. Al fenomeno, che non era nato in un alveo cristiano, era però associato un santo cristiano, san Paolo, di cui varie leggende raccontavano la familiarità con il ragno e altri animali velenosi dei campi, e che oltre che guarire dal male del ragno era egli stesso nello stesso tempo responsabile del morso, in virtù del suo patronato sugli aracnidi.
La credenza che nei suoi secoli più importanti coinvolgeva tutte le classi sociali e si spingeva fuori del Salento, a partire dal Settecento cominciò a declinare, avviandosi a essere limitata ai ceti subalterni in gran parte contadini, e tra essi soprattutto alle donne, a causa degli attacchi incrociati delle critiche implacabili dell’Illuminismo medico napoletano e delle proibizioni rituali della Chiesa cattolica rinnovata dal Concilio di Trento. Il complesso simbolismo della taranta, nella sostanza immaginario ma con una figurazione simbolica che teneva conto di ragni veri del Salento, includeva colori, più o meno graditi dal ragno che mordeva, si basava su musiche – ogni ragno aveva le sue preferenze musicali cui manifestava il suo gradimento – e si esprimeva con danze cui la vittima doveva sottoporsi.
Quando qualcuno era colpito dal morso veniva chiamato un gruppo musicale riconosciuto come competente, il quale avrebbe “esplorato” tra le varie musiche del repertorio, che in passato erano davvero tante, quella giusta perché il ragno si “scazzicasse”, cioè rispondesse al ritmo facendo ballare la vittima, e poi avrebbe accompagnato con la sua musica per ore e giorni la danza della persona tarantata, con brevi intervalli fino alla completa guarigione, annunciata dalla dichiarazione stessa della vittima che il santo aveva fatto la grazia. In passato abiti di vario tipo accompagnavano il corso del rituale, ma negli ultimi decenni s’erano ridotti a una veste bianca delle donne. Allo stesso modo in passato c’erano vari oggetti rituali, tra cui spade e bastoni, e una scena rituale che circondava la danza, con acqua e vegetali. Negli ultimi decenni tutto si era ridotto a un lenzuolo bianco steso a terra e talvolta una conca d’acqua. Il rapporto con san Paolo e con la religiosità locale che in passato era stato risultato di una politica di cristianizzazione del tarantismo operata dalla stessa Chiesa, negli ultimi secoli divenne sempre più contrastato fino ad approdare all’opposizione dichiarata delle autorità religiose che progressivamente produsse una disgregazione simbolica del culto e un insieme di divieti e interdetti che marginalizzarono sempre più il tarantismo nel quadro della festa del 29 giugno a Galatina in onore di san Paolo.
Il cuore dell’interpretazione di De Martino era nel modello di “crisi della presenza” che egli aveva già utilizzato negli studi sulla magia.
Tra i ceti subalterni del mondo contadino meridionale, gli scacchi di un’esistenza fragile, difficile, esposta agli insulti della società e della storia, confluivano in un “negativo” per eccellenza, la crisi della presenza, che andava oltre il singolo incidente esistenziale, mettendo in crisi la stessa centralità dell’agire, la capacità cioè di reagire agli scacchi con comportamenti adeguati, di oltrepassarli con azioni opportune. La crisi bloccava ogni reazione al negativo, era abbattimento, chiusura alla vita e alla storia, smarrimento del sé fino alle forme di paralisi della coscienza e dell’azione. A tale stato ponevano rimedio i rituali magici attraverso un processo di “destorificazione”, cioè un riferimento a un eroe mitico (Gesù, un santo, la Madonna) che aveva già affrontato e superato in un’epoca mitica quel particolare male, e che dunque conferiva uno strumentario magico perché la vittima potesse superare a sua volta il male grazie al rituale che veniva messo in atto. Nel caso del tarantismo, pur conservandosi l’impostazione generale della crisi della presenza e superamento della crisi, l’orizzonte magico era riassunto nell’ideologia della taranta che morde e che in sostanza rappresentava il cattivo passato che torna, attraverso una ripetizione del morso, il “rimorso”, che infatti colpiva la persona tarantata ogni anno all’approssimarsi della stagione della festa, quando il cattivo passato chiedeva in riscossione i “debiti” inconsci che si trascinavano anno per anno.
Con le parole di De Martino, il tarantismo era in ultima analisi, “un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come simbolo nevrotico, veniva evocato e configurato sul piano mitico-rituale, e su tale piano fatto defluire e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni i periodi intercerimoniali e facilitando per quei periodi un relativo equilibrio psichico”[1].
Alla base dello studio demartiniano ci fu un’esperienza di ricerca sul campo condotta da un’équipe interdisciplinare da lui diretta, e di conseguenza un incontro con donne e uomini del Salento non considerati come “oggetti” d’indagine ma come umanità colta in una condizione di sofferenza. Nei confronti di essa, si fece sentire tra gli stessi studiosi un “rimorso” – ed è un altro dei significati del termine del titolo del libro di De Martino – per una condizione sociale di cui certo essi non erano diretti responsabili, ma che comunque vedeva in una divisione di classe loro da una parte e i tarantati da un’altra.
In questo quadro si collocano i rapporti tra Annabella e Anna, tra l’antropologa e la tarantata. Fondamentalmente la conoscenza e il rapporto che ne conseguì aveva come unica motivazione la conoscenza del tarantismo da parte dell’équipe, ma gli esseri umani non sono batteri di laboratorio di analisi. Annabella e Anna attivarono emozioni, se le scambiarono, condivisero sensibilità che in certi momenti le legarono e in altri le divisero, come esseri umani che si incontrano e tracciano insieme un pezzo di strada della vita, tra affetti e incomprensioni.
Annabella aveva certi suoi obiettivi, Anna ne aveva altri, come succede nei rapporti umani. Che gli obiettivi di Annabella fossero scientifici, e dunque avessero un valore più alto, in grado di oltrepassare la stretta contingenza personale, di guardare a questioni di ordine più generale, storico, politico, scientifico, che non le concrete vicende biografiche di Anna e le sue stesse, è la ragione for se più importante perché questo libro venga ripubblicato. Il tarantismo e la taranta rimangono “buoni da pensare”, pur se non solo alla luce dei fasti della Notte della taranta. Anche se va osservato che l’indiscutibilità della superiorità di quegli obiettivi scientifici oggi appare un po’ meno indiscutibile. Soprattutto poiché non sono più così facilmente inseriti in un quadro di trasformazione sociale, come nel secondo dopoguerra in cui nacquero, quando l’antropologia veniva considerata come un espresso contributo al mutamento della società ed emancipazione dei ceti subalterni.
C’è meno sicurezza in materia oggi su questo, perché la storia è davvero molto diversa e l’antropologia oscilla paurosamente tra tendenze tra loro piuttosto lontane. Che vanno da una convinta autoreferenzialità scientifica, per la quale l’impresa antropologica trova in se stessa le sue “giustificazioni”, come in generale per tutte le scienze; a un desiderio di “ricaduta” della conoscenza antropologica sul terreno sociale, che spesso si esprime nell’ideologia della “restituzione” alle comunità tra le quali si è studiato, dei materiali conoscitivi raccolti, secondo un atteggiamento di pietas che eredita l’orizzonte dell’epoca demartiniana, con il quale però certo non può competere quanto a sicurezza di sé nell’efficacia di contributo per il cambiamento di condizioni esistenziali. Restituire conoscenza di sé alle comunità per esempio emarginate di qualche parte del mondo non può pretendere la stessa salda convinzione di fare qualcosa di concretamente utile al cambiamento delle condizioni di emarginazione che era presente nell’ideologia “rivoluzionaria” che animava l’orizzonte politico all’indomani della seconda guerra mondiale. Ma tant’è: persa la direzione generale di senso della storia e del sociale, non rimane che trovarne di provvisorie e locali.
Questo libro fu pubblicato per la prima volta nel 1970, quando si viveva, ancora per poco in verità, in orizzonti aperti di speranze, pace, giustizia sociale. Aveva già a corredo il saggio di Tullio De Mauro, un classico ormai, un lucido cammeo di analisi delle trasformazioni del linguaggio in Italia. Fu ripubblicato venticinque anni dopo, con una mia introduzione, in piena stagione di autoreferenziale antropologia postmodernista, in cui v’era attenzione alla scrittura, all’esperienza di campo, alla riflessione critica sull’antropologia classica.
Viene ora ripubblicato, in un’epoca di pessimismi globali e morse invincibili, in un tempo in cui la lettura stessa dei libri sembra in crisi, in cui gran parte dei saggi scientifici sono scritti per l’università e non più per un pubblico colto. In cui infine non c’è sicurezza del futuro dell’operare antropologico, in particolare in Italia, dove a guardare i numeri e elaborare proiezioni sembra quasi che l’antropologia culturale sia destinata a un lento declino accademico.
In cui però, la taranta che batte il suo ritmo ad agosto, fenomeno imprevedibile e imprevisto negli anni della ricerca sul campo dell’équipe demartiniana, fa pensare che se era vano per i tarantati danzare per eliminare un “cattivo passato” che implacabilmente tornava anno dopo anno in un incessante “rimorso”, ineliminabile in assenza di strumenti realistici di risoluzione dei problemi personali e sociali, non è forse vano “danzare” oggi un’antropologia che voglia utilizzare i suoi strumenti realistici se non di risoluzione, di rischiaramento dei problemi culturali, politici e sociali.
[1] E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 76.
Figura di assoluto rilievo nella ricera antropologica, svolta prevalentemente all'interno del Museo Nazionale Arti e Tradizioni Popolari di Roma, Annabella Rossi, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha raccolto un’ampia documentazione sonora, fotografica e audiovisiva con una particolare attenzione alle forme della religiosità popolare, alla cultura materiale e alla tematica dell’"esclusione" delle classi subalterne.
Un'opera che ha consentito di ampliare la riflessione sul tarantismo, poiché ha permesso di guardare al fenomeno dal punto di vista di una tarantata, entrando per la prima volta nel suo vissuto, integrando così la prospettiva inaugurata dalle splendide analisi di De Martino. (...) Il saggio di Tullio De Mauro contenuto nel libro divenne subito un punto di riferimento nel dibattito sui linguaggi popolari. Sergio Torsello, Nuovo quotidiano di Puglia
A quasi mezzo secolo di distanza, le “Lettere” restano un’opera dal fascino ineludibile non solo sul piano demo-linguistico, ma soprattutto per aver allargato la riflessione prospettica sul tarantismo, attraverso la testimonianza diretta di “Anna la tarantata”. Senz’altro una lettura consigliata, che potrebbe aprire la mente ai tanti che battono (o cercano di farlo) il ritmo della taranta ad agosto senza comprendere cosa ci sia stato dietro. Ciro De Rosa, Blogfoolk