Maurizio Agamennone
Viaggiando, per onde su onde
Il viaggio di conoscenza, la radiofonia e le tradizioni musicali locali nell'Italia del dopoguerra (1945-1960)
2019, € 18
Formato 15x21, pp. 200
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L’avventura del “viaggio di conoscenza” negli anni Cinquanta del secolo scorso, a partire da Alan Lomax e dal suo “viaggio in Italia” con Diego Carpitella, per seguire le tracce di altri grandi viaggiatori, anch’essi curiosi e incantati, nell’Europa di allora: Pier Paolo Pasolini, Guido Piovene, Patrick Leigh Fermor, Constantine Manos, Mario Soldati, Ernesto de Martino, Ingeborg Bachmann e Italo Calvino.
In quegli stessi anni la radiofonia imponeva una nuova presenza culturale, con vicende e imprese oggi quasi incredibili, nella stretta integrazione con la ricerca e nella costante diffusione delle registrazioni effettuate sul terreno, all’interno del palinsesto quotidiano.
Tirata al traino da quei viaggi e da quelle rilevazioni, la nascente etnomusicologia italiana muoveva i suoi primi passi, impegnandosi in una più convincente definizione del proprio oggetto di studio e degli strumenti più appropriati per una sua adeguata valutazione critica
L'introduzione
Questo libro si è composto quasi da solo, mentre ero alle prese con una lunga esperienza di ricerca e riflessione critica che mi ha impegnato tra il 2012 e il 2016, conclusa in un’impresa editoriale che si è rivelata piuttosto laboriosa (Agamennone 2017): si tratta di uno studio sulla breve “incursione” salentina di Alan Lomax e Diego Carpitella - due grandi musicologi e antropologi del secolo scorso - messa in atto intorno al Ferragosto del 1954. Ed è stato proprio il peso che quella prospettiva di scrittura maturava, progressivamente, a convincermi che fosse opportuno lasciar sedimentare più a lungo un altro volume completamente nuovo, accantonandolo per un po’ di tempo perché “riposasse” in caldo e lievitasse.
In effetti, la breve estate salentina dei due grandi documentaristi ha rappresentato soltanto una piccola frazione del loro mitico “viaggio in Italia”, condotto dalla Sicilia all’arco alpino, per lunghi mesi, tra 1954 e 1955. E mentre seguivo le loro tracce - a grande distanza, essendo passati oltre sessanta anni, da allora – mi rendevo conto che negli stessi anni, tra la fine dei Quaranta e tutti i Cinquanta del secolo scorso, una parte rilevante del mondo intellettuale europeo, e pure non pochi americani, si era messa in movimento attraversando diverse regioni del Continente, con esiti e motivazioni multiformi: ripercorrere e ri-mappare territori e paesaggi sconvolti, dopo dittature e guerre progettate e condotte in Europa, a partire da quelle d’Etiopia e di Spagna, e recuperarli a una consapevolezza condivisa; incontrare comunità duramente percosse, lacerate, affamate, anche disperse o frammentate, ma che cercavano di ricomporsi e ritrovarsi; “ri-conoscere” le regioni periferiche e scoprire differenze inattese e inaudite; smaltire, espiare, esorcizzare colpe tremende, assunte o ereditate negli scenari dell’odio e lo sterminio: allontanandosene, per trovare la distanza giusta tra quelle vicende orribili e un loro doloroso riconoscimento; rilevare pratiche espressive di sorprendente bellezza, circolanti o pullulanti dove non ci si aspettava che esistessero; stupirsi per come fosse possibile, nonostante la distruzione e l’orrore, che alcune popolazioni “periferiche” riuscissero a conservare una sorta di primigenia “semplicità” o arcaica “purezza”, lontano dai grandi “centri” politici, e poter attingere, quindi, a una sorta di “età dell’innocenza”: si tratta di istanze critiche e percezioni che possono suonare romantiche e ingenue, oggi, oppure, forse, intrinsecamente “essenzialiste”, nella incongrua assunzione di una permanente immobilità che connoterebbe società e culture periferiche, immuni o indifferenti alle tempeste della storia…ma si fa presto a essere severi, sessanta o settanta anni dopo, alla distanza.
Quindi, mi è parso che quegli intellettuali, ognuno caratterizzato da competenze e “qualifiche” diverse, ma curiosi e animosi, spesso molto giovani, avessero pensato di poter marcare con la loro stessa presenza, le regioni più marginali e periferiche d’Europa: nella loro narrazione e testimonianza, speravano – forse sognavano? - di riconsegnarle a una grande ed estesa comunità - quella continentale - che non le aveva veramente apprezzate, oppure non le aveva mai conosciute, riscattandole finalmente emendate da ubriacature nazionalistiche, centraliste e pan-stataliste, e dalle tragiche conseguenze di istanze razziste e suprematiste: potevano così ricondurre quelle aree estreme e le popolazioni locali a specifiche e autonome forme espressive, paesaggistiche e architettoniche, riconoscendole come esiti di storie locali, remote ma originali e sorprendenti, spesso ignare delle ossessioni patite e imposte dalle élite “centrali”, di manìe ideologiche mortificanti e fallimentari. E proprio per questo potevano risultare particolarmente attrattive: intese come probabile inventario di valori, saperi, storie, espressioni, percezioni, sensibilità, esperienze che in nulla – o assai poco - avevano contribuito al recentissimo annientamento dell’Europa, allora, e connesse, invece, a molteplici memorie di un passato locale che consentiva di riannodare i fili di un’identità continentale larga e di più lunga durata: ripartire, ricostruire e ricucire, finalmente, sulla “tabula rasa” ereditata dalla “grande storia”.
Pure, mentre seguivo le tracce di Lomax e Carpitella, e di altri viaggiatori instancabili, un altro protagonista sembrava emergere, con motivazioni simili a quelle descritte; e non si trattava soltanto di persone, ma di un “medium” e un processo comunicazionale: la radio e la radiofonia culturale, che pure riuscirono a contribuire profondamente, nel quindicennio post-bellico, ad alimentare la coscienza di una rinnovata identità nazionale, nella “nuova Italia” democratica e repubblicana - ma anche in altre regioni europee - ricostruita sulla consapevolezza delle numerose differenze locali, e pure delle vicende che avevano caratterizzato le diverse storie statuali e culturali preunitarie. Queste memorie ed esperienze potevano essere recuperate, integrate e armonizzate in uno scenario nuovo, faticosamente, ma con coraggio e una “vocazione pedagogica”, sulle macerie del disastro europeo, “tabula rasa” irrimediabile, come s’è detto. E anche la nuova radiofonia pubblica - pur con alcuni esiti di continuità, nonostante il crollo del regime, e in presenza di una netta egemonia culturale d’impronta cattolica e a stretta conduzione politica democristiana – sembra aspirare a emanciparsi dalle colpe maturate durante la dittatura - altoparlante di regime e megafono capillare di “discorsi” infausti -, recuperando una maggiore sobrietà narrativa, anche nel tono e profilo intonazionale delle voci impegnate al microfono, un’attenzione progressivamente estesa alle comunità locali, un prudente rispetto delle differenze linguistiche e culturali, ignorate e oppresse nel corso della ventennale tirannia. La radiofonia di allora riuscì pure a inventare nuovi formati espressivi, a cominciare dal “documentario radiofonico” che consentiva a intrepidi e giovani cronisti di portare microfono e registratore a tracolla o in bicicletta nelle vie e nelle piazze, in mezzo alle persone, per riprendere i suoni di Firenze che insorgeva e si liberava dai nazifascisti (Amerigo Gomez, nel 1944), o le fioche voci dei senzatetto e barboni milanesi (Roberto Costa, nel 1950): e pure attingendo entusiasticamente a recenti tecnologie “leggere” ed efficacissime, per allora, come il registratore a filo metallico, sostituito subito da quello a nastro magnetico, inventato in Germania e usato frequentemente dai nazisti per registrare e diffondere altri discorsi e proclami funesti, ma immediatamente adottato dalla radiofonia in tutto il mondo, subito dopo la guerra, e rimasto “in servizio” a lungo per la qualità della ripresa sonora, l’affidabilità, e la maneggevolezza nei dispositivi portatili.
Molti protagonisti di quegli anni - ben oltre quelli indicati finora e in seguito - si trovarono ad agire, sotto la spinta di due istanze emotive, distinte ma convergenti: da una parte la percezione di una “tabula rasa” (distruzione e annientamento) che impediva di guardare indietro al passato recente, uno scenario ormai irrecuperabile; dall’altra, una sensazione di “statu nascenti” che, al contrario, e con effetto moltiplicatore, avrebbe potuto consentire di osare qualsiasi impresa, ma guardando generosamente in avanti, proprio perché quasi nulla di utile era rimasto alle spalle[1].
Perciò, sono proprio questi gli anni, dal 1954 al 1964, in cui il reddito nazionale italiano raddoppia impetuosamente, pur con il contributo iniziale del cosiddetto “Piano Marshall”, il programma per la ripresa europea (“European Recovery Program”) allestito dal governo americano: una crescita costante, impressionante, inimmaginabile oggi, anche se il Prodotto Interno Lordo, in sé, non costituisce un misuratore della felicità, e nemmeno del benessere diffuso. Ancora, il 25 maggio 1959 il quotidiano conservatore inglese “Daily Mail” descrive il nuovo assetto produttivo e commerciale dell’Italia come un “miracolo economico” e l’anno seguente il “Financial Times”, autorevole quotidiano economico-finanziario londinese, promuove la Lira italiana come la moneta più solida dell’Occidente: tutto ciò, beninteso, a costo di grandi sacrifici, disagi, contraddizioni, conflitti, e a fronte di un esodo delle popolazioni meridionali verso il Nord della Penisola e verso l’estero, che assunse modi quasi “biblici”.
Una sanzione simbolica dell’euforia e intraprendenza seguite all’annientamento bellico si può dedurre ancora da una proposta del sistema mediale: la ripresa e diffusione delle Olimpiadi di Roma, nel 1960, le prime a essere “coperte” sistematicamente dalla televisione e trasmesse nel mondo con una comunicazione estesa e continua, a soli quindici anni dalla fine della guerra, e appena sei anni dopo l’inizio delle trasmissioni televisive della RAI. Una sorpresa generata da quell’evento, ma anche una soddisfazione profonda, fu la consapevolezza che un accadimento qualsiasi potesse essere fruito ovunque mediante le tecnologie della ripresa e diffusione televisiva: un’opportunità – speranza, illusione? - di trasparenza e ampia condivisione. Ma fu anche un’occasione per vivere emozioni intense, di meraviglia e bellezza, nella reazione di quanti riuscirono a vedere l’arrivo notturno di Abebe Bikila - uno sconosciuto maratoneta che gareggiava a piedi nudi - sotto l’Arco di Costantino, il Colosseo bene inquadrato, i vigili urbani nell’uniforme estiva bianca, zelanti ed eleganti: un nero africano etiope, guardia del corpo dell’imperatore Hailè Selassiè, correva nel vento e staccava tutti, sulle strade di una città che apparve meravigliosa, tra le vestigia antiche illuminate e magnificamente riprese dalle telecamere, ma, anche, nella capitale erede di quel regime che appena 25/20 anni prima aveva invaso, gasato e occupato il suo paese, e costretto all’esilio quel sovrano; fu un’esperienza di bellezza anche per chi riuscì ad assistere alle grazie di una farfalla sotto specie di gigante nero, anch’esso, ma afro-americano, Cassius Marcellus Clay, che molto ancora avrebbe insegnato al mondo, sul ring e nelle storie di Muhammad Ali; e pure per chi vide vincere Livio Berruti, un ventunenne studente di chimica che correva e “volava”, leggero come un “angelo”, con gli occhiali da sole: quindici anni soltanto dalla fine della guerra, e il mondo era cambiato profondamente, e in meglio sicuramente[2].
Se a queste spinte formidabili si uniscono la giovane età, il vigore e l’entusiasmo di non pochi attori impegnati in quel “teatro”, allora, non ci si stupisce che la combinazione di tutti i fattori citati abbia prodotto esiti straordinari, in campi diversissimi, con effetti “a cascata” anche in ambienti non centrali nella sensibilità e nell’opinione pubblica, finanche nelle scienze sociali, negli studi etno-antropologici e nell’indagine musicologica.
Perciò, restando nella Penisola italiana, si può ritenere che l’etica e l’epica del “viaggio di conoscenza” abbiano marcato profondamente anche le imprese di Ernesto De Martino e delle sue équipe di giovani promettenti, già nel 1952 in Basilicata: così, l’ansia e speranza di acquisire a una consapevolezza civile sovra-ordinata le pratiche rituali e cerimoniali delle remote “contadinanze” incontrate sulle orme di Carlo Levi e del suo Cristo testardamente attardato troppo a nord, si collocano nella prospettiva di comunicare alle élite urbane - e ai “centri” delle egemonie politiche e culturali - le storie, voci, “magie”, credenze, miti e riti delle “periferie”, pur nella prospettiva di emanciparsene rapidamente, grazie alle promesse della “democrazia progressiva” e alle solidali organizzazioni sindacali e di partito.
E lo stesso si può dire per le musiche e danze praticate dalle popolazioni locali nella Penisola italiana e nelle isole, di cui nessuno conosceva veramente, allora, le peculiarità locali, maturate in condizioni ambientali, storico-culturali, socio-economiche, linguistiche, insediative e climatiche assai mutevoli, tali, perciò, da causarne la distanza reciproca, le formidabili differenze. Questa consapevolezza - panoramica e comparativa - cominciò a emergere proprio in quegli anni, timidamente, e pure a questo proposito la radiofonia rappresentò un valore aggiunto straordinario: i “viaggi” e le principali rilevazioni etnografiche di Ernesto De Martino e numerosi altri studiosi andarono a buon fine grazie a materiali, personale tecnico, automobili e attrezzature (microfoni, aste, registratori e bobine magnetiche, accumulatori, soprattutto) della RAI (Radio Audizioni Italiane: la televisione non c’era ancora, all’inizio dei Cinquanta); determinante fu pure l’integrazione scientifica e operativa con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia - prestigiosa istituzione concertistica romana che allestiva, allora e ora, alcuni programmi di ricerca e documentazione –, culminata nella fondazione del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare (CNSMP), nel 1948, appena tre anni dopo la fine della guerra e la Liberazione. La solidarietà tra enti diversi pervadeva profondamente anche le radio-diffusioni, poiché molte registrazioni sonore realizzate sul terreno finivano nel palinsesto radiofonico e nella programmazione quotidiana e settimanale. Il dominus di queste relazioni è stato Giorgio Nataletti, il cui nome tornerà ripetutamente in queste pagine; ottimo musicista, studioso attento e dirigente radiofonico intraprendente, capace di navigare con disinvoltura nell’avvicendamento dei regimi politici, a lui si devono molte intuizioni e operazioni descritte in questa sede: una personalità forse trascurata nella riflessione su quegli anni e gli esiti successivi, la cui opera andrà sicuramente sottoposta a una interpretazione critica più avveduta e pervasiva.
E pure il mitico “viaggio in Italia” di Alan Lomax e Diego Carpitella - da cui, in fondo, anche questo volume ha preso le mosse - si colloca pienamente in quello scenario, orientato dalla “longa manus” di Nataletti e sostenuto dalla radiofonia: così è anche per gli esiti più largamente culturali e scientifici di quella esperienza, almeno nella documentazione conservata in Italia, che proprio RAI e Accademia Nazionale di Santa Cecilia hanno tutelato, catalogato e reso disponibile alla riflessione critica degli studiosi, alla restituzione presso le comunità di origine e alle curiosità di musicisti, artisti, danzatori e appassionati.
Le ricerche condotte fino ai primi Sessanta del secolo scorso hanno costituito la base documentale su cui esercitare una valutazione storico-culturale e un’analisi musicale coerenti e condivisibili, la dotazione iniziale, irrinunciabile e sufficiente, per favorire una consapevolezza reale - e finalmente scientifica: non retorica, “strapaesana”, sentimentale o romantica - delle diversità culturali e specificità stilistiche che connotavano, allora, le musiche espresse dalle popolazioni della Penisola italiana e delle Isole.
Quindi, se lo studio delle tradizioni musicali locali può contribuire alla conoscenza della storia culturale del Belpaese e finanche alla comprensione di “come può essere musicale l’uomo”, tutto ciò che accadde in quegli anni costituisce il repertorio di esperienze, testi e documenti, saperi ed emozioni che rende possibile questa ambizione.
I viaggi, la radio, il “terreno”, gli archivi, i protagonisti e il loro entusiasmo, la bellezza di molte musiche raccolte su nastro, lo stupore della scoperta, gli “informatori” locali e il dialogo con i documentaristi, il confronto di idee tra studiosi e osservatori, le incomprensioni e malintesi tra gli attori coinvolti, le delusioni per gli insuccessi, il rammarico per certi ritardi, le intuizioni visionarie: è tutto quello che ho cercato di raccontare in questo volume.
Perciò, nel primo capitolo si ricostruisce l’avventura del “viaggio di conoscenza” nei Cinquanta del secolo scorso, intesa come esperienza iniziatica e fondativa, a partire dai viaggi in Europa di Alan Lomax e dal suo “viaggio in Italia” con Diego Carpitella, per seguire le tracce di numerosi altri grandi viaggiatori, anch’essi euforici e incantati. Nel secondo capitolo si descrive la forza e originalità della radiofonia di allora, osservate all’interno di vicende e imprese irripetibili, oggi quasi incredibili. Nel terzo, infine, si propone una riflessione concernente i processi della nascente ricerca etnomusicologica italiana, “tirata al tràino” dalle registrazioni sonore di quegli anni, impegnata in una più convincente definizione del proprio oggetto di studio, e nella preparazione di una adeguata “cassetta degli attrezzi” per l’analisi e valutazione critica delle musiche rilevate: pure, si aggiunge una stima della documentazione disponibile prima e dopo quei viaggi e scoperte.
A settanta anni dall’avvio di quelle indagini, senza quelle esperienze e l’opera di quelle grandi personalità, in viaggio - “sulle strade” di un’Italia e un’Europa impegnate a “ritrovarsi” - e al lavoro – “sul terreno”, nelle loro case e nei piccoli studi e laboratori radiofonici -, non sarei qui a introdurre questo volume, né avrei potuto scriverne altri, prima: anche le scritture di oggi sono strettamente tributarie di quei viaggi, di quelle esplorazioni, di quelle personalità e di un’altra radio, sicuramente.
[1] Le testimonianze a proposito di queste sensibilità incrociate sono piuttosto numerose, soprattutto di provenienza tedesca; rimanendo in campo musicale, si può ricordare l’epopea dei Ferienkurse di Darmstadt, avviati sulle macerie della guerra in un clima assai spartano: rappresentano altresì una sicura espressione di comportamenti e istanze creative in “statu nascenti”. Richiamo ancora, proveniente da tutt’altra storia, la vicenda creativa di Richard Strauss (1864-1949), che si avvia a conclusione nel 1946 con Metamorphosen (Metamorfosi) per 23 archi solisti, tra le espressioni più dolenti del sentimento di perdita irrecuperabile per il declino di una grande civiltà, quella tedesca della filosofia, poesia, narrativa e della musica, che rischiava di essere trascinata nell’abisso, insieme con il crollo di un impero che avrebbe dovuto durare mille anni.
[2] Si può agevolmente valutare come il “metronomo” del cambiamento e dell’innovazione sia stato profondamente rallentato, se non bloccato, negli ultimi decenni: chiunque, ma senza intristirsi oltre misura, andando 15 anni indietro da oggi (2019), vale a dire tornando al 2004, può misurare che cosa sia cambiato, quanto e come, nella propria vicenda individuale e nel mondo.
Maurizio Agamennone insegna Etnomusicologia presso l’Università di Firenze. Per Squilibri ha pubblicato Varco le soglie e vedo. Canto e devozioni confraternali nel Cilento antico, Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di D. Carpitella ed E. De Martino (1959, 1960), Musica e tradizione orale in Salento. Le registrazioni di A. Lomax e D. Carpitella (1954) e, assieme a V. Lombardi, Musiche tradizionali del Molise. Le registrazioni di D. Carpitella e A. M. Cirese (1954)
Un’esplorazione, quella proposta in “Viaggiando, per onde su onde”, che pur conservando le caratteristiche dell’opera specialistica, in virtù della narrazione dotta e puntuale ma al contempo garbata di Agamennone, si rivela accessibile e allettante per chiunque intenda percorre alcuni passaggi cruciali nella storia culturale del nostro Paese Ciro De Rosa, Blogfoolk
Questa volta, però – ed è la maggiore originalità di Viaggiando, per onde su onde – il viaggio di Lomax è solo un punto di partenza per incrociare altre traiettorie – da Italo Calvino a Pier Paolo Pasolini, da Guido Piovene allo stesso de Martino. E, soprattutto, per allargare lo spettro di osservazione (e di ascolto) su un decennio decisivo per la cultura italiana, in cui si sono ricomposte – sebbene in maniera imperfetta – fratture, accorciate distanze, nel segno del "nuovo" medium radiofonico. Una nuova Italia, un'altra Italia immaginata attraverso la radio Jacopo Tomatis, Il giornale della musica
Un viaggio pionieristico su un terreno lacerato da eventi bellici e che andava sapientemente riletto e rilegato nelle sue trame storiche, sociologiche e, non ultimo, antropologiche Gildo De Stefano, Leggere tutti
Merito grande quello di Agamennone per averci dato la possibilità di recuperare un momento davvero importante per la storia musicale del nostro paese Andrea Trevaini, Buscadero