Dall'introduzione di Paolo Apolito a Lettere da una tarantata di Annabella Rossi
Ogni anno ad agosto decine di migliaia di persone, in gran parte giovani, vanno in Salento per assistere e ballare ai concerti della taranta e in particolare a quello finale a Melpignano nel quadro della manifestazione Notte della taranta che da più di un quindicennio mantiene una capacità di richiamo di turismo musicale che non ha pari in Italia e forse in Europa.
La domanda, cui nessuno potrebbe rispondere con certezza, è quale idea hanno di quella musica e delle sue origini le decine di migliaia di turisti della taranta che accorrono in Salento, indipendentemente dal fatto che li affascina, trascina, fa ballare notti e notti. E che è musica che ormai si trova da tutte le parti nei giri di incontri giovanili, in concerti, scuole di danza, gruppi spontanei. Sorta come gusto di nicchia del genere delle musiche etniche e popolari, è diventata in pochi anni di massa, pur rimanendo in una nicchia stagionale.
Molti salentini per parte loro, pur tra posizioni diversificate, vivono questo fenomeno con orgoglio e soddisfazione e in gran parte sanno bene che tutta l’effervescenza giovanile che si raccoglie ad agosto nella loro terra ha a che fare con una credenza e un culto di antiche origini, il tarantismo. Per alcuni davvero antiche, persino fantasticamente preistoriche, per altri databili intorno a secoli comunque lontani pur se raggiungibili dal punto di vista della documentazione storica, che farebbe risalire la nascita della taranta e del tarantismo al Medioevo delle crociate e poi alla modernità dello scontro-incontro con il cristianesimo. È difficile poi sapere tra i salentini più giovani, quanti sappiano che questa musica, proprio per la credenza a essa associata, quarant’anni fa era considerata anacronistica e plebea e che gli ultimi tarantati vivevano isolati, in condizioni di emarginazione locale e vergogna per il loro stato.
Ma soprattutto cosa ne pensano i giovani danzanti di agosto nessuno può saperlo con certezza. Molte cose penseranno, moltissime, magari senza l’ossessione dell’origine, che spesso grava su fenomeni culturali del genere e che talvolta pesa tanto da determinare comportamenti di appartenenza, esclusione, violenza persino. L’identità e l’origine sono monete sonanti nella vita contemporanea e molto spesso in mercati violenti, per quanto quelle monete possano essere di lega falsa.
In verità, di taranta e tarantismo si parla molto in Italia e anche in Europa e da secoli. Se ne sono occupati tra i più grandi intellettuali, filosofi, medici, secondo prospettive e orizzonti ideologici vari. Nella seconda metà del Novecento se n’è parlato molto prima ma soprattutto dopo la pubblicazione nel 1961 di La terra del rimorso, capolavoro di Ernesto De Martino, uno dei libri più influenti della letteratura scientifica del Novecento. Questo libro è stato molto letto, chiosato e commentato, ha avuto una notevole fortuna editoriale nel campo della saggistica e continua a essere riedito, venduto, seguito, letto. Probabilmente un drappello non molto numeroso ma significativo delle persone che vanno ad agosto in Salento lo ha letto. (…) Alla base dello studio demartiniano ci fu un’esperienza di ricerca sul campo condotta da un’equipe interdisciplinare da lui diretta, e di conseguenza un incontro con donne e uomini del Salento non considerati come “oggetti” d’indagine ma come umanità colta in una condizione di sofferenza. Nei confronti di essa, si fece sentire tra gli stessi studiosi un “rimorso” – ed è un altro dei significati del termine del titolo del libro di De Martino – per una condizione sociale di cui certo essi non erano diretti responsabili, ma che comunque vedeva in una divisione di classe loro da una parte e i tarantati da un’altra.
In questo quadro si collocano i rapporti tra Annabella e Anna, tra l’antropologa e la tarantata. Fondamentalmente la conoscenza e il rapporto che ne conseguì aveva come unica motivazione la conoscenza del tarantismo da parte dell’equipe, ma gli esseri umani non sono batteri di laboratorio di analisi. Annabella e Anna attivarono emozioni, se le scambiarono, condivisero sensibilità che in certi momenti le legarono e in altri le divisero, come esseri umani che si incontrano e tracciano insieme un pezzo di strada della vita, tra affetti e incomprensioni.
Annabella aveva certi suoi obiettivi, Anna ne aveva altri, come succede nei rapporti umani. Che gli obiettivi di Annabella fossero scientifici, e dunque avessero un valore più alto, in grado di oltrepassare la stretta contingenza personale, di guardare a questioni di ordine più generale, storico, politico, scientifico, che non le concrete vicende biografiche di Anna e le sue stesse, è la ragione forse più importante perché questo libro venga ripubblicato. Il tarantismo e la taranta rimangono “buoni da pensare”, pur se non solo alla luce dei fasti della Notte della taranta. Anche se va osservato che l’indiscutibilità della superiorità di quegli obiettivi scientifici oggi appare un po’ meno indiscutibile. Soprattutto poiché non sono più così facilmente inseriti in un quadro di trasformazione sociale, come nel Secondo Dopoguerra in cui nacquero, quando l’antropologia veniva considerata come un espresso contributo al mutamento della società ed emancipazione dei ceti subalterni.
(…) Questo libro fu pubblicato per la prima volta nel 1970, quando si viveva, ancora per poco in verità, in orizzonti aperti di speranze, pace, giustizia sociale. Aveva già a corredo il saggio di Tullio De Mauro, un classico ormai, un lucido cammeo di analisi delle trasformazioni del linguaggio in Italia. Fu ripubblicato venticinque anni dopo, con una mia introduzione, in piena stagione di autoreferenziale antropologia postmodernista, in cui v’era attenzione alla scrittura, all’esperienza di campo, alla riflessione critica sull’antropologia classica. Viene ora ripubblicato, in un’epoca di pessimismi globali e morse invincibili, in un tempo in cui la lettura stessa dei libri sembra in crisi, in cui gran parte dei saggi scientifici sono scritti per l’università e non più per un pubblico colto. In cui infine non c’è sicurezza del futuro dell’operare antropologico, in particolare in Italia, dove a guardare i numeri e elaborare proiezioni sembra quasi che l’antropologia culturale sia destinata a un lento declino accademico.
Un’epoca in cui la taranta che batte il suo ritmo ad agosto, fenomeno imprevedibile e imprevisto negli anni della ricerca sul campo dell’equipe demartiniana, fa pensare che se era vano per i tarantati danzare per eliminare un “cattivo passato” che implacabilmente tornava anno dopo anno in un incessante “rimorso”, ineliminabile in assenza di strumenti realistici di risoluzione dei problemi personali e sociali, non è forse vano “danzare” oggi un’antropologia che voglia utilizzare i suoi strumenti realistici se non di risoluzione, di rischiaramento dei problemi culturali, politici e sociali.