Oltre a restituirci, in tre cd e un denso apparato storico-critico, un ampio panorama sulle musiche di tradizione orale di un’area poco battuta nelle rilevazioni sul campo, il volume Musiche tradizionali In Polesine. Le registrazioni di Sergio Liberovici (1968) a cura di Paola Barzan, offre anche l’occasione per riflettere attorno all’opera di Sergio Liberovici, altra straordinaria figura di intellettuale “poliedrico”, capace di attraversare con grande disinvoltura i confini sui quali si erigono oggi rigide, quanto anguste, ripartizioni di ambiti disciplinari
Musicista e compositore, autore di opere liriche e strumentali, balletti, lieder, musiche di scena, radiodrammi e canzoni, studioso e ricercatore, Liberovici è anche il co-fondatore, assieme a Michele Straniero, dei Cantacronache, la cui breve ma intensa parabola (1958-1962), rappresentativa delle passioni di quegli anni. è ricolma di istanze di sorprendente attualità.
“Evadere dall’evasione” -quella proposta dalle canzonette di allora- “per cantare storie, accadimenti, favole che riguardino la gente nella sua realtà terrena quotidiana, con le sue vicende sentimentali (serie, più che sdolcinate, comuni più che straordinarie), con le sue lotte, le aspirazioni che la guidano e le ingiustizie che la opprimono, con le cose insomma che la aiutano a vivere o a morire”: questo l’obiettivo del gruppo torinese, composto assieme a Emilio Jona, Fausto Amodei e Margherita Galante Garrone (Margot), all’interno di un progetto che coinvolse anche poeti e scrittori come Franco Fortini, Italo Calvino e Umberto Eco, allo stesso modo interessati a un rinnovamento della tradizione canora nazionale.
Tra l’altro questo ambizioso disegno artistico si innestava, con sorprendente naturalezza, sul terreno della ricerca sul campo e lo studio dei repertori popolari che vede Liberovici tra i suoi protagonisti e pionieri, avendo già nel 1945 raccolto canti in ebraico di alcuni reduci dai lager nazisti di passaggio a Torino e realizzato, nel 1956, una delle più antiche raccolte del CNSMP, con un’ampia rilevazione in Val di Cogne i cui esiti abbiamo pubblicato nel volume a cura di Mauro Balma e Giorgio Vassoney.
Scrivendo, musicando e cantando le proprie canzoni, non avendo trovato cantanti professionisti disposti a farlo, l’esperienza dei Cantacronache segnava, allo stesso tempo, un punto di svolta nella storia della canzone italiana, da porre per molti versi all’origine della scuola dei “cantautori” che, per temi e motivi, contrassero peraltro debiti rilevanti con il gruppo torinese. Basti confrontare al riguardo alcuni versi de La guerra di Piero di De Andrè, del 1964, (“Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente”), con quelli di Dove vola l’avvoltoio, il testo di Calvino musicato da Liberovici nel 1958 (“Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar”).
Dove vola l'avvoltoio
La guerra di Piero
Facendo di necessità virtù, i Cantacronache, con le loro autoproduzioni, sono stati anche i primi a cercare un’alternativa all’industria culturale, ritagliandosi zone franche all’interno del ‘sistema’ e ricercando luoghi e mezzi di comunicazione alternativi ai circuiti convenzionali, allora peraltro meno dominanti di quanto non siano oggi. Istanze e tensioni che, per quanto agitate come esclusive in quel periodo di grandi entusiasmi e urticanti lacerazioni, contrassegnavano in realtà altre esperienze, allo stesso modo votate a “cantare storie” e a travalicare confini, alla ricerca di un dialogo tra studio e spettacolo e a una possibile collaborazione tra poesia e musica, dalla Sicilia di Cicciu Busacca alla Milano di Roberto Leydi.
Vicende diversamente articolate e, a volte, furiosamente contrapposte tra loro ma accomunate dall’urgenza di andare oltre una canzone intesa come un prodotto ‘gastronomico’ e dalla consapevolezza di dover travalicare steccati e confini per provare a ‘resistere’, tessendo reti e relazioni. Una lezione forse ancora più valida per il nostro presente, a fronte della bulimia sempre più insaziabile dell’industria culturale e di un orizzonte decisamente più unidimensionale che non quello degli anni ’60.