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 Domenico Ferraro, Eravamo quattro amici al bar... La canzone d'autore ai tempi del digitale, Il cantautore, n. unico, 2023 

 

Nello scorrere le pagine di "Cantautori e cantautrici del nuovo millennio" risalta subito il carattere titanico dell’impresa realizzata da Michele Neri che, con i suoi collaboratori, ha voluto scandagliare quanto ribolle all’interno di un mondo in grande fermento quale sembrerebbe essere quello della canzone d’autore in Italia. A colpire, in particolare, sono i numeri che emergono da questo scandaglio, riportati anche in copertina: 1996 biografie per 10.000 dischi. Un’enormità destinata ad assumere dimensioni ancora più sconcertanti in una eventuale seconda edizione dato che, nel frattempo, l’autore ha ricevuto segnalazioni di altrettanti cantautori non presenti nel dizionario ma in possesso dei requisiti d’ingresso, vale a dire “aver esordito intorno alla prima metà degli anni ’90 e aver fatto almeno un EP”.

Molto di più di una “eletta schiera”, una folla in cui si inabissa l’aura dell’opera d’arte che Walter Benjamin riteneva potesse allentarsi con il dispiego di altri sistemi di riproduzione meccanica. Ciò che il filosofo tedesco non poteva prevedere, infatti, era l’avvento di un’epoca del tutto nuova in cui ad essere riproducibile all’infinito sarebbe stata la figura stessa dell’artista grazie a sistemi di riproduzione e diffusione del suono che consentono oggi di esaurire tutto il processo produttivo nel chiuso della propria cameretta, in una dimensione esasperatamente casalinga. “Artista” non è più il suggello che una comunità o parte di essa, anche minoritaria, conferisce all’autore di un’opera nella quale si riconosce, ma il gesto solitario con il quale ci si attribuisce una condizione e un ruolo a prescindere da ogni riconoscimento e da qualsivoglia comunità.

Salutato come riprova dell’ottimo stato di salute di un determinato fenomeno musicale, questo censimento offre così più di un argomento alle tesi di chi invece ritiene tramontata la stagione d’oro della canzone d’autore, nella constatata impossibilità che una canzone o un cantante possano avere oggi la stessa funzione avuta in passato. L’aspirazione a farsi interprete di istanze di carattere generale si disperde infatti in una sorta di gigantesca torre di babele in cui si annullano le differenze di ruolo e tutti scrivono e cantano senza avere più il tempo né la voglia di leggere o ascoltare gli altri.

Un numero così elevato di cantautori comporta inoltre la polverizzazione del pubblico, frammentato in innumerevoli rivoli, isolati l’uno dall’altro, ognuno con i propri critici di riferimento perché a questa proliferazione di versi in musica corrisponde anche un aumento vertiginoso di critici musicali e testate per lo più online: una situazione tutt’altro che eccellente, per quanto grande, molto grande sia la confusione sotto il cielo della canzone italiana. E a parte i pochi che rientrano appieno nella dimensione dello show business, tutti gli altri, “chiusi in tante celle, fanno a chi parla più forte” forse per non accorgersi che la loro voce raramente varca la soglia della propria cameretta o, per meglio dire, di quella cella virtuale in cui tutti ci ritroviamo da quando un algoritmo delimita il nostro rapporto con il mondo.

Nel succedersi delle schede del dizionario si delinea così un panorama prossimo agli scenari auspicati dai signori del digitale: una platea sterminata di artisti e musicisti, per lo più autoprodotti, sulla quale si agita una pletora di società di servizi, dagli uffici stampa ai consulenti di best practice, e come termine ultimo per l’appunto le piattaforme digitali, gestite peraltro in modo del tutto arbitrario nella colpevole latitanza della politica. Gran parte dei nomi che ricorrono nel Dizionario, infatti, fa parte di quel 90 % degli artisti presenti sulle piattaforme che non va oltre l’1% degli ascolti complessivi, con circa la metà che non raggiunge neanche un centinaio di streaming: si ritrovano però alla base di una nuova filiera produttiva dove sono gli unici a pagare, per i servizi che ricevono, senza ricavarne alcunché di significativo.

Colta in questa prospettiva l’iperbolica esplosione di creatività e di ingegno, di cui si ha testimonianza nel Dizionario, appare come una determinazione particolare di una più generale disposizione bulimica che da tempo investe tutto il settore e attorno alla quale è sapientemente organizzata la gestione stessa del digitale. Illuminante al riguardo la risposta che Daniel Ek, il ceo di Spotify, ha dato alle rivendicazioni economiche avanzate dagli artisti durante la pandemia: se vogliono aumentare i loro guadagni devono piegarsi alla logica che domina il mercato, accantonando ogni pretesa di ricerca e qualità a favore di una continua pubblicazione di brani al fine di essere competitivi in un sistema sovrastato da un’offerta colossale, tale da sopravanzare le capacità di consumo di un pubblico pure vorace come quello del digitale.

Come in ogni rivoluzione coronata da successo, i signori del digitale in realtà non si sono inventati nulla, essendosi limitati a intercettare bisogni ampiamente diffusi per poi edificarvi un universo a loro uso e consumo. All’origine di tutto c’è una vera e propria mutazione antropologica innescata dalla convinzione che si possa avere tutta la musica del mondo senza pagare nulla o quasi, come testimoniato anche dal crollo verticale del download che è quanto di più vicino si dia all’acquisto nel mondo reale. Pertanto è il concetto stesso di “vendita” ad essere messo in discussione da modalità d’ascolto ormai universalmente praticate e con le quali le diverse piattaforme hanno trovato un accordo al ribasso, chiamando artisti ed etichette a sostenerne i costi sulla base della cinica considerazione che per loro sarebbe stato meglio ricevere poco piuttosto che nulla, come pure accadeva agli inizi di tutta la faccenda con altre piattaforme “non autorizzate”. In ogni caso, la loro è una rivoluzione senza precedenti perché, come rilevato da alcune indagini di carattere statistico, “nessun’altra innovazione tecnologica ha sconvolto l’industria globale dei media e dell’intrattenimento e cambiato le abitudini di consumo della musica in modo così netto come lo streaming”, con un aumento vertiginoso degli utenti passati da meno di otto milioni nel 2014 agli attuali 524 milioni.

Una rivoluzione, peraltro tuttora in corso e dagli esiti ultimi imprevedibili, che sarebbe però velleitario pensare di contrastare, senza considerare quanto di buono ha apportato al mondo della musica in un passaggio a dir poco epocale della sua storia. Non è però ozioso chiedersi quale spazio possa avere una canzone di qualità in un sistema votato esclusivamente al consumo, al punto da stravolgere le modalità di produzione e fruizione della musica per come si sono storicamente date e tramandate fino a noi. E basti pensare all’assoluta preminenza accordata ai singoli brani a discapito dell’album; alle sollecitazioni a calibrarne la durata sulla soglia effettiva di attenzione dell’utente medio, con la remunerazione fissata a 30 miseri secondi; ai tentativi di profilare sempre più nel dettaglio le inclinazioni degli utenti, con la definizione di circa 1400 micro-ambiti musicali al fine di giungere più speditamente all’obiettivo perseguito: difficile immaginare qualcosa di più distante dalle ambizioni narrative che hanno caratterizzato la canzone d’autore nei momenti più rilevanti della sua storia. Ad essere messa in discussione, infatti, dal cuore dell’attuale industria culturale, non è più la scelta dei contenuti, come era nella magnifica Luci a San Siro di Vecchioni, ma la struttura portante, la forma generale e l’idea stessa di canzone, e non solo di quella che voglia svolgersi ancora con “dignità artistica e poetico realismo”.

Da questa distanza discendono conseguenze rilevanti riguardo al futuro della canzone d’autore che, evidentemente, si giocherà al di fuori della corrente che veicolerà il consumo di musica nelle società contemporanee. Personalmente non ho alcuna difficoltà ad accettare questa marginalità come un dato di fatto e, soprattutto, a non viverla come una condizione di minorità. Sarà forse perché, per scelte professionali e anche per passione, mi occupo da sempre di splendide e magnifiche tradizioni culturali che non esercitano più la funzione che hanno svolto in passato, dalla retorica alle musiche di tradizione orale fino alla stessa filosofia: a nessuna di loro però si nega importanza e attenzione dato che nella loro storia si ritrovano elementi imprescindibili della nostra identità culturale. Un riconoscimento che con determinazione deve essere reclamato anche per la canzone malgrado i ritardi dell’accademia e del sistema dell’istruzione e a dispetto di dati puramente quantitativi che in nessun modo possono essere assunti come indice dell’effettiva importanza che ha avuto e continua ad avere all’interno delle nostre società.