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 Domenico Ferraro, Il Tenco e la canzone d'autore (dall'ultimo numero di Awand)

 Al Tenco, come Squilibri, siamo arrivati nel 2016, sull’onda del nostro impegno attorno all’opera di Otello Profazio del quale volevamo rivalutare anche l’importanza come autore di brani originali per quanto radicati sul tronco della tradizione. Il Premio Tenco, conferitogli quell’anno dalla più importante istituzione italiana sulla canzone d’autore, era l’insperato coronamento di questo nostro lavoro dato che ad esserne gratificato non era il “ricercatore della tradizione orale” ma “un cantautore a tutti gli effetti, attento ai miti arcaici come alle vicende contemporanee”.

Fino ad allora poco sapevo del Club Tenco, fondato a Sanremo nel 1972 da Amilcare Rambaldi, un floricoltore con una grande passione per la musica, una personalità fuori dal comune e un agire illuminato da squarci di straordinaria lungimiranza. Tra questi, il gesto immediato con cui, in risposta a un articolo di Roberto Buttafava, pur non avendo alcun ruolo nell’ambito musicale, si dichiarava pronto a occuparsi di quei cantautori che nessuno voleva malgrado fossero “bravi, anzi bravissimi”. Con quel gesto Rambaldi delineava i contorni di una possibile casa da abitare che buona parte dei cantautori italiani avrebbe poi trovato nel Club Tenco, fondato da lì a poco, e nella Rassegna annuale sulla canzone d’autore promossa, a partire dal 1974, assieme ai suoi collaboratori della prima ora, tra i quali Enrico de Angelis e Sergio Secondiano Sacchi. Con quella dichiarazione Rambaldi non voleva però assumere il ruolo di talent scout né costruire un fortino in cui rinserrarsi a difesa della purezza dell’idea, che sono invece i motivi che puntualmente ritornano in ogni polemica attorno al Tenco, accusato di volta in volta di non promuovere più i giovani, “come una volta”, e di seguire solo logiche commerciali.

In realtà quei cantautori che nessuno voleva rispondevano ai nomi di Francesco Guccini, Piero Ciampi e Roberto Vecchioni che, anche allora, non erano degli sconosciuti. Guccini era un autore di lungo corso che, con collaborazioni avviate da tempo con i Nomadi e l’Equipe 84, nel 1967 aveva pubblicato il suo primo album come “cantautore”, Folk Beat n. 1, e raggiunto un seguito più rilevante nel 1972 con Radici, quarto disco della sua carriera. Lo stesso si può dire di Roberto Vecchioni che, nel 1974, aveva già preso parte a Canzonissima e a Un disco per l’estate, composto le musiche di Barbapapà e pubblicato quattro dischi. Lasciando da parte il caso a sé di Piero Ciampi, la cui carriera comunque non mutò in nulla dopo la sua partecipazione al Tenco del 1976, lo stesso potrebbe dirsi di tutti i cantautori che dell’associazione sanremese sarebbero diventati un emblema, a partire da Paolo Conte che, autore di brani di successo come Azzurro fin dagli anni sessanta, aveva già inciso il suo primo disco nel 1974: a “una trappola di Amilcare” ha attribuito però l’avvio della sua attività live, iniziata di fatto con la Rassegna del 1976.

A tutti loro, sia quelli destinati al successo sia quelli che al successo non arrivarono mai malgrado ripetute partecipazioni alla Rassegna, il Tenco offriva un luogo dove sentirsi per l’appunto a casa, legittimati nella loro presunzione di essere “diversi” dagli altri cantanti che, dentro l’industria culturale come loro, diversamente da loro non avevano altra preoccupazione che i riscontri di pubblico e i bollettini di vendita. Con un’intuizione geniale, e profondamente rispondente allo spirito del tempo, Rambaldi istituzionalizzava una separazione e una differenza, definendo il canone della canzone d’autore per contrasto con una canzone puramente di consumo, quella stessa che  con termine brechtiano, già i Cantacronache e Umberto Eco agli inizi degli anni sessanta avevano sprezzato come “gastronomica”: un riferimento, tra i tanti possibili, per indicare da quanto tempo era atteso quel gesto con cui Rambaldi dava una casa e un orizzonte di senso a una canzone che avesse l’ambizione di svolgersi con “dignità artistica e poetico realismo”. La definizione di “canzone d’autore” si deve a Enrico de Angelis che, mutuandola dal cinema, l’aveva adoperata in un articolo sull’Arena di Verona nel 1969 ma, senza il Club Tenco e la Rassegna, non avrebbe mai avuto una fortuna tanto estesa e duratura, sopravvivendo con non pochi equivoci anche all’epoca in cui è stata formulata. In ogni caso, nella mente di Rambaldi, incerto fin all’ultimo se adoperare altre definizioni per indicare l’oggetto della sua passione, “canzone d’autore” non si profilava come una bandiera in cui avvolgersi, crogiolandosi nella presunzione di una mal precisata alterità, ma, più semplicemente, doveva indicare l’esistenza di “altro” rispetto a quanto i media radiotelevisivi imponevano all’attenzione generale, in un panorama con diverse opzioni artistiche: così si esprimeva, in una delle sue prime lettere all’amministrazione comunale, sottolineando come la costituenda Rassegna sulla canzone d’autore potesse coesistere con l’altro festival e concorrere all’affermazione di Sanremo come “città della musica”.

Un’altra grande intuizione di Rambaldi è stata l’istituzione, nel 1984, delle Targhe Tenco per cui attorno al Club si ritrovano tutti i soggetti attivi, a diverso titolo, nell’ambito musicale. Un’ampia platea di giurati, composta attualmente da oltre 300 critici, è chiamata ad esprimersi sui dischi dell’anno, suddivisi per categorie (miglior album, interprete, opera prima, dialetto e album a progetto): un riconoscimento molto ambito che non va però confuso con il Premio Tenco, assegnato, sulla base di proprie insindacabili decisioni, dal Direttivo del Club per lo più alla carriera di un autore, che non vi giunge dunque in tenera età. Le Targhe invece riservano agli autori più giovani una specifica sezione (opera prima) che, da Mariella Nava (1988) a Elisa (1998) fino a Madame (2022), si è rivelata una buona antenna sulle novità del momento, riuscendo anche a intercettare proposte difficili a ricondursi alla forma canonica della canzone, come è successo nell’ultima edizione con Daniela Pes. Ma non sono mancati neanche “splendidi” ultracinquantenni al loro esordio come Pino Pavone, amico e storico collaboratore di Piero Ciampi. Detto per inciso, la difficoltà a stabilire un rapporto non occasionale con le generazioni più giovani è comune a tutte le istituzioni storiche, quale sia il loro ambito di intervento, e si riflette anche sulle attività di un editore come Squilibri che guarda a realtà culturali come le musiche di tradizione orale o la canzone d’autore: difficoltà oggi accentuata dai processi rapidissimi di obsolescenza di una proposta e di ricambio nei gusti e nelle scelte di quel pubblico. Trovo però alquanto deprimente l’ossessiva rincorsa ai “ggiovani” che sembra dominare tutto il sistema dell’informazione, sempre più piegato alla logica profondamente diversa dei social e pronto a camuffare con una patina posticcia di impegno e cultura fenomeni dettati solo dal moltiplicarsi di like e followers, spesso grazie a ragazzini, neanche adolescenti, che giocano con il telefonino dei genitori. Più in linea con la propria storia, oltre che molto più coraggiosa, mi pare la scelta di dare spazio ad autori di grandissimo valore per quanto ai margini del mercato come è stato nell’ultima rassegna con il settantaquattrenne Flavio Giurato.  Soprattutto considerando che, ieri come oggi, una Targa da sola o una presenza al Tenco non ha effetti dirompenti né sulla carriera di un autore né sulla vendita di un disco, costituendo solo un passaggio significativo, e di grande prestigio, all’interno di un percorso che deve articolarsi in più direzioni. 

In ogni caso, anche il nostro primo contatto con le Targhe Tenco risale al 2016 quando, nella sezione interpreti, abbiamo candidato Voltarelli canta Profazio, che per noi costituiva un altro tassello nella promozione dell’opera di Otello: un progetto perseguito a lungo, tentato dapprima con Daniele Sepe e infine realizzato con Voltarelli che con Profazio condivideva origini, dialetto ed appartenenza. E a sorpresa il CD vinceva la Targa Tenco, avviando così sotto i migliori auspici la collana Crinali che si sarebbe rivelata all’altezza di un esordio così lusinghiero. L’anno dopo, infatti, a vincere una Targa Tenco, per l’album in dialetto, era quel gioiello di straniante bellezza che è Canti, ballate e ipocondrie d’ammore di Canio Loguercio e Alessandro D’Alessandro, mentre nel 2020 e nel 2021 la stessa Targa sarebbe toccata a due capolavori di scrittura originale innestata sul corpo della tradizione come sono Napoli 1534 della Nuova Compagnia di Canto Popolare e Manzamà dei Fratelli Mancuso. Ho menzionato solo queste quattro Targhe, tra le dieci che abbiamo vinto, perché sono quelle che meglio indicano la prossimità tra il mondo della canzone d’autore e un’attività editoriale, come la nostra, imperniata sul paradigma dell’oralità. A noi interessava promuovere una “certa” canzone, quella più legata a una tradizione narrativa che affonda le proprie radici nelle musiche di tradizione orale e che risente maggiormente di alcune eredità musicali, diverse a seconda delle aree di riferimento, anche se non mancano, tra i quaranta titoli pubblicati, espressioni tout court della canzone d’autore come la rivisitazione collettiva del repertorio di Gianni Siviero, autore molto amato da Rambaldi che non a caso lo volle alle prime tre edizioni della Rassegna: un doppio CD, Io credevo, premiato anch’esso con una Targa Tenco.

E dieci Targhe Tenco vinte in otto anni da un piccolissimo, editore, senza alcuna credenziale in quest’ambito, dovrebbero deporre largamente a favore dell’autonomia e libertà di giudizio della Giuria del Tenco, che è stata invece presa di mira come inadeguata e troppo sensibile a mainstream e mercato nelle polemiche che hanno fatto seguito alle dimissioni del direttore artistico Enrico de Angelis. Polemiche a tratti anche violente come succede sempre quando ragioni per così dire professionali si accompagnano a motivazioni più intime, inestricabilmente legate tra loro trattandosi di rapporti lunghi tutta una vita. Un groviglio di sentimenti e ragioni, insomma, che solo i diretti interessati possono sciogliere, magari tacitando le voci scomposte di chi, da questa situazione, vorrebbe trarre solo vantaggi personali, buttando nella mischia anche chi, per rispetto al nome e alla sua storia, non avrebbe mai dovuto entrarci. Al fondo di tutto sembra però di cogliere una divergenza che riguarda soprattutto il modo di intendere il futuro della canzone d’autore, investita da cambiamenti tanto profondi da rendere del tutto improbabile la replica degli antichi fasti. Un cambiamento epocale rispetto al quale,  da una parte, si intendeva assumere una posizione più dimessa, a tutela di un bene minacciato all’interno di un ambiente protetto e al riparo da parametri quantitativi, mentre dall’altra, pur ritenendo irreversibili questi cambiamenti, c’era la volontà di giocarsela in mare aperto, accettando di misurarsi anche con i numeri, per rivendicare comunque il diritto ad esistere del Club e della sua Rassegna in un panorama completamente diverso rispetto al passato.

E, a giudicare da quanto fatto negli ultimi anni, e non solo all’Ariston, i fatti sembrerebbero dare ragione a chi ha ritenuto di spendersi in quest’ultima direzione, con un’azione che l’attuale direttore artistico, Sergio Secondiano Sacchi, ha voluto che fosse collegiale e nella quale ha esercitato un ruolo determinante Sergio Staino nel cui ricordo vorrei chiudere queste mie osservazioni su quella che lui riteneva essere “una delle strutture culturali più affascinanti dell’Italia contemporanea”. A suo parere, in particolare, al Tenco andava riconosciuto il merito di aver creato un ambiente in cui una grande passione per la bellezza alimentava incontri e condivisioni: un’aria che, a dispetto di ogni polemica, si respira ancora al Tenco e alla Rassegna, che continua ad essere quella che aveva voluto che fosse il suo fondatore.