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A proposito delle celebrazioni di una napoletanità di maniera che stanno accompagnando il dolore per la morte di un grandissimo artista come Pino Daniele, vi riproponiamo una sua intervista assieme a Roberto De Simone, rilasciata il 14 novembre del 2004 a Federico Vacalebre. Ad accomunarli era anche l’avversione verso “la napoletanità esibita, la retorica stradaiola e il kitsch” e il fastidio per il trionfo del “culto mortuario di una tradizione che nessuno conosce”. Un’intervista che era anche l’annuncio di una collaborazione che purtroppo non potrà più realizzarsi.

L'autore de La Gatta Cenerentola e il cantautore si ritrovano a chiacchierare su Eduardo e gli eduardiani, la tradizione da reinventare, Viviani, Gesualdo e Apicella Nasce una collaborazione?

NAPOLI - Roberto De Simone, 71 anni, si dice un “esiliato in patria”. Pino Daniele, mezzo secolo in marzo, si definisce “un napoletano della diaspora”. S’erano persi di vista negli anni Ottanta e ora eccoli seduti sulle poltrone dell’Augusteo come vecchi amici, a parlare. Di Napoli, naturalmente, dei suoi artisti, della sua tradizione da reinventare, del conformismo culturale che la attanaglia.

De Simone: “Il “Fujitevenne” di Eduardo ormai è un dogma, questa è una città necrofila. Parlo di cultura, Pino, del teatro che non esiste più, non certo di politica: me ne tiro fuori, da quella”.

Daniele: “La capisco, maestro, vorrei darle del tu, ma proprio non ci riesco. Anch’io sono avvilito quando vedo quello che la televisione vorrebbe far passare per cultura napoletana. Io sono figlio di una generazione che con la tradizione aveva un rapporto ambivalente, ambiguo forse, ma un rapporto vero. L’arte per noi non era soltanto un dato estetico, ma anche sociale, politico. Così nascevano eventi come la “Cantata dei pastori” in Galleria: perché simili iniziative non posso nascere adesso?”.

De Simone: “Perché si è prigionieri di un’oleografia persino più pericolosa di quella laurina, degli spaghetti-pizza-mandolino. Tutto un bla-bla su Eduardo, gli eduardiani, i post-eduardiani… E nessuno a riflettere su evoluzioni e involuzioni della produzione di De Filippo: anche lui, come Viviani, parte in una maniera e finisce in un’altra, riempie i suoi testi di “messaggi” a danno della sua stessa figura di attore. Ho detto “riflettere”? Ho sbagliato, non mi sembra una parola adatta ai nostri tempi vacui”.

Daniele: “Il discorso vale anche per la canzone napoletana. Io sono cresciuto sui suoi studi, sulla lezione della Nuova Compagna di Canto Popolare, sulla “Gatta Cenerentola”.Ora è passata la vulgata per cui la canzone napoletana è una roba da salotto del premier, Bovio e Di Giacomo hanno lasciato il campo ad autori del calibro di Berlusconi, Apicella e Giglio”.

De Simone: “La tradizione viene scambiata per conformismo e il conformismo permette di stabilire quali sono le radici da tenere e quali quelle da tagliare, anzi nascondere, cos’è contemporaneo e cosa è fuori moda. Prendiamo il teatro: Napoli è la capitale della presunta Nuova spettacolarità affermatasi tra gli anni Settanta ed Ottanta, ma io credo che l’unico nuovo linguaggio emerso in quel periodo sia stato il tuo, Pino, capace di avere memoria, ma di vivere l’evoluzione della lingua, dei suoni, della città. È il linguaggio che conta, tutto il resto lascia il tempo che trova”.

Daniele: “Io non sopporto la napoletanità esibita, la retorica stradaiola e kitsch, ma sopporto ancor meno la “Napoli nobilissima” che trova un teatro per ogni teatrante partenopeo, tranne che per De Simone, lasciando così che lei i suoi spettacoli li metta in scena a Firenze, o magari all’estero. Forse ho un cattivo carattere, ma non digerisco nemmeno quelli che credono di essere stati incaricati da chissà chi di raccontare la nostra città: penso a Lina Wertmuller. Una volta aveva chiesto a Troisi e me di scrivere una canzone per “Sabato, domenica e lunedì”. Ci sembrava una bell’idea, poi lei è venuta da noi è ci ha detto: “Ecco, ho scritto il testo, fate la musica”. Massimo e io ci siamo guardati trasecolando. “Andiamo a prendere un caffè, prima”, abbiamo detto. E non siamo più tornati”.

De Simone: “Sai, Pino, ho ammirato nella tua carriera la capacità di andare oltre la canzone napoletana, di rinnovarla, di attingere a fonti antiche e moderne. La tua curiosità da musicista, insomma. Qui trionfa il culto mortuario di una tradizione che nessuno conosce. E, invece, ha ragione Stravinskij, la tradizione è viva nel nostro sangue e nella nostra carne. Ma bisogna avere sangue e carne, altrimenti si crede che tradizione voglia dire revival”.

Daniele: “Oggi tradizione, per me, vuol dire studiare Gesualdo da Venosa, farmi venire voglia di inventare una nuova canzone madrigalista. Io le mie scelte le pago sempre sulla mia pelle, quando sono andato a suonare con musicisti arabi, come adesso che sono alla ricerca di partiture di Gesualdo. A proposito, maestro: è possibile mai che sono costretto a farmele mandare dalla Germania?”.

De Simone: “Al Conservatorio abbiamo molto di Gesualdo, Pino. Un giorno, se vuoi, ci andiamo insieme, il direttore, Vincenzo De Gregorio, è uomo di cultura e ti accoglierebbe a braccia aperte. È importante il contributo che tu puoi dare, i giovani credono in te, puoi essere un testimonial importante per la cultura napoletana, quella vera, non quella cloroformizzata, politicamente allineata. Insieme potremmo approfondire il discorso su Gesualdo e il suo maestro Orlando Di Lasso, sul cromatismo fiammingo trapiantato all’ombra del Vesuvio”.

Daniele: “Mi piacerebbe cantare una canzone in latino. Roberto, vorrei davvero darti del tu, magari la prossima volta ci riesco. Prendiamo un caffè e vediamo se riusciamo a fare qualcosa insieme. Per Napoli”.

De Simone: “Per Napoli, nonostante tutto”.

Federico Vacalebre