A dieci anni dalla scomparsa di Roberto Leydi, in attesa di altre iniziative editoriali che ne attestino la straordinaria capacità di coniugare ricerca e spettacolo, vorremmo ricordarne lungo tutto l'anno (con una successione di articoli pubblicati sui principali quotidiani e periodici italiani), la fecondità del suo essere intellettuale nella realtà del tempo, pronto a guardare oltre i confini di una disciplina scientifica per misurarsi con quanto la musica (tutta la musica) rappresenta nella vita degli uomini.
R. Leydi, I SUCCESSI e GLI ERRORI DEL FOLK ITALIANO, DOPO I FURORI DELLA TARANTELLA
La stampa, 15 giugno 1979
Non c'è dubbio che uno degli elementi caratterizzanti della vita culturale italiana degli ultimi vent'anni (dalla fine degli Anni Cinquanta) sia stato il progressivo recupero di interesse per la cultura del mondo popolare. E ciò da molti punti di vista, da quello scientifico a quello consumistico. L'arco delle attenzioni che sono state e sono rivolte alle manifestazioni culturali delle classi popolari è molto ampio e va a confondersi quasi, da un lato, con la moda ecologica, mentre, dall'altro, si insinua nella più viva e avanzata ricerca storica. Dal folklore come ambigua realtà «ruspante» al folklore come apertura di nuovi orizzonti anche ideologici al dibattito culturale. Ma se la ricerca e lo studio vanno bene, con un'attività che, ovviamente, ha i suoi dislivelli di qualità ma produce risultati anche importanti e .spesso emozionanti (sullo sfondo di un accademismo da liceo classico finalmente in crisi), in quella fascia che volgarmente viene etichettata come folk, e riunisce molte iniziative sia evidentemente commerciali che ambiziosamente culturali, regna una notevole confusione.
Il momento «eroico» degli Anni Sessanta, connotato anche vivacemente soprattutto dal lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano e portato alla ribalta di un'attenzione di massa dallo «scandalo» di Bella ciao al Festival di Spoleto, nel 1964, è ormai definitivamente concluso. Fenomeno proprio di fasce giovanili, il folk revival offre ai ragazzi di oggi una memoria molto impallidita (o addirittura svanita) di quei suoi anni cosi lontani sul calendario sempre più veloce dello sviluppo generazionale. E al passato, in fondo, appartengono anche gli eventi e i personaggi del periodo successivo (del periodo, cioè, della prima metà degli Anni Settanta) che ha visto svolgersi il gioco di varie tendenze più o meno vicine o più o meno lontane: l'eredità radicalizzata in senso politico del Nuovo Canzoniere Italiano; lo sviluppo in senso di fedeltà musicale ai modi tradizionali di quella stessa esperienza; la proposta seducente, musicalmente vivissima (e commercialmente fortunata) della Nuova Compagnia di Canto Popolare; le ricerche di contaminazione e di «creatività» del Canzoniere del Lazio. Non è, certo, un elenco completo, ma credo che in questi quattro filoni si possa, emblematicamente, condensare il senso del lavoro del nostro folk revival in quel periodo di transizione. Lasciando perdere, com'è doveroso, i cascami e le avventure banalmente commerciali.
Se questo è il «passato», se questo è dietro di noi (magari non tanto dietro di noi cinquantenni, ma certo dietro ai ventenni e ai trentenni), qual è il presente di questo lavoro sulla musica popolare che non appartiene all'ambito dell'impegno scientifico, ma non può esser messo fuori dal panorama degli interessi per il mondo popolare che animano tante fasce di pubblico oggi? Non so se è effetto dell'età (oggi si invecchia, culturalmente, assai velocemente), ma a me il panorama non appare per nulla promettente. Soprattutto non appare ricco di fermenti innovativi, come invece negli anni fra la fine del decennio del Cinquanta e i primi anni degli Anni Settanta. Che cosa ci offre, infatti, il menù? Cerchiamo di esplorarlo insieme. Il «napoletanismo» (lanciato dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare) un po' regge ancora, ma il «furor tarantellistico», distintivo del raduni giovanili di cinque o sei anni fa, a suon di tamburello, è giustamente in forte declino. La NCCP va ancora in giro, certo, e ha tuttora un suo pubblico, ma si tratta di un nobile monumento che va avanti sull'inerzia di una fortuna commerciale che, onestamente, è giusto sfruttare fino in fondo. Ma di nuovo e di vivo ha ben poco da dire. Questo straordinario «strumento» musicale, reso vivo da quell'uomo di genio che è Roberto De Simone, ripete la vecchia sonata. E lo stesso De Simone, del resto, ha trovato una più stimolante strada alla sua ricerca (che è, al tempo stesso, ricerca scientifica e ricerca di spettacolo) nelle realizzazioni teatrali quali La gatta Cenerentola, Mistero napolitano e Li zite 'n galera, un'opera buffa settecentesca che andrà in scena martedì 19 al Maggio Musicale Fiorentino. La bandiera del «napoletanismo» «creativo» è passata a un trasfuga della NCCP: Eugenio Bennato. E cioè a Musica Nova, il gruppo che tenta di saldare modalità popolaresche con ambizioni di creazione musicale urbana, attuale, magari tesa all'«avanguardia». A Bennato e ai suoi estimatori potrà apparire un giudizio grossolano (e un po' grossolano certo lo è, ma bisogna pur intendersi), ma a me la sua Musica Nova non sembra davvero una proposta più avanzata rispetto a quella buttata a suo tempo sul tavolo dal Canzoniere del Lazio.
La bandiera (gloriosa e lacera, ma anche stinta per il passare di troppe stagioni e non soltanto per l'infuriare di tante battaglie) del Nuovo Canzoniere Italiano non raccoglie più le masse, né nella sua versione prepotentemente politica, né nella sua versione più mediatamente ideologica. Giovanna Marini offre sempre un saggio di gran temperamento teatrale ogni volta che torna sulla scena, ma il suo talkin' blues all'italiana non accende ormai più sorprese e il suo generoso inseguimento di risultati squisitamente musicali si fa sempre più distanziare da altre ricerche e altre prove, in campi non compromessi con la musica popolare. Caterina Bueno certo trasmette tuttora emozioni quando canta di cose toscane, ma la sua Toscana ci sembra pateticamente remota, datata a giorni perduti. Sandra Mantovani ha smesso di cantare, constatato l'esaurirsi delle motivazioni che, fin dalla fine degli Anni Cinquanta, fra i primissimi, l'avevano spinta a farsi cantante e a promuovere, con pochi altri, l'avvio di un movimento.
Se, da un lato, il rifiuto ormai dominante per la canzone politica (non sarà riflusso, ma qualcosa del genere sarà) ha buttato ai margini il folk militante, dall'altro il massiccio arrivo di esperienze straniere, soprattutto francesi e inglesi, ha spinto gli eredi della «scuola del ricalco» (di quanti, cioè, ritenevano che bisognasse rispettare, nella riesecuzione dei canti e delle musiche popolari, i modelli stilistici della tradizione) verso la musica strumentale, più o meno «celtizzata», aspirando anche al coinvolgimento del gran ballo collettivo. Il fenomeno di questi gruppi (alcuni buoni, molti pessimi) è soprattutto vistoso in Piemonte, mentre altrove non sembra trovare sufficienti motivazioni. Ma quest'aria corre un po' dappertutto, nell'ansia di affiancare al «tarantellismo» il «monferrinismo», nell'intento di porre accanto alla riscoperta dei balli meridionali (ballati, per la verità, in modo molto ma molto approssimativo) la riproposta di quelli settentrionali. Un quadro poco allegro? A me pare. Ma forse, sotto sotto, qualcosa di vivo corre. Bisognerebbe distinguerlo. E parlarne ancora.