R. Leydi, Dalle fortune del passato ai fenomeni del presente
Laboratorio di musica, 13 (giugno 1980), pp. 14-16.
La cronaca delle fortune, in Italia, della musica popolare ed etnica, nel corso almeno degli ultimi trent'anni, è ancora tutta da tracciare e forse sarebbe questa una fatica utile, non soltanto per «fare la storia», ma anche, e soprattutto, per capire il presente. Se, infatti, ci guardiamo attorno, in questi giorni che aprono il decennio dell'Ottanta, vediamo una serie di «fenomeni» che possono, al tempo stesso, muovere preoccupazioni e animare soddisfazione, sullo sfondo di una situazione generale che, lo sappiamo tutti, non propone molte certezze e, neppure, molti appigli per l'fondate previsioni
Questa serie di «fenomeni» può così essere schematizzata:
1). Sparizione quasi completa del «folk revival» tipo «anni Sessanta- Settanta» (modello Nuovo Canzoniere Italiano - Almanacco Popolare - Nuova Compagnia di Canto Popolare e relativi derivati, per intenderci), contestualmente alla crisi della nuova canzone politica, connessa del resto, ad una parte almeno del «folk revival» (modello, sempre per intenderci, Della Mea, Pietrangeli);
2). Emergenza (limitata anche geograficamente) di un «folk revival» di importazione (dalle esperienze francesi e irlandesi soprattutto), più o meno italianizzato, culturalmente o fragile o inesistente (pensiamo alla cretineria del «celtismo»), politicamente non motivato;
3). Confluenza di fatto del «folk» con intenzioni «creative» nell'indefinito, ormai, territorio del «pop-rock-jazz», e/o in quello dei cosiddetti «cantautori» (parlo dei figli «degeneri» della NCCP e di quelli coerenti del Canzoniere del Lazio, più altri, naturalmente);
4). Apertura consistente di interesse per la musica popolare ed etnica[1], con esecutori della tradizione (italiani, europei, di altri continenti).
In sé una situazione così delineata (in termini schematici, s'intende) non può non procurare soddisfazione in chi, in questi anni passati, ha operaio, anche attraverso canali e strumenti con qualche margine di ambiguità, per «usare» il «folk revival» come mezzo di provocazione culturale, nella direzione di un'acquisizione piena, attraverso i detentori legittimi della musica di tradizione orale, dei valori culturali, musicali e politici delle musiche popolari, etniche, della grandi civiltà dell'Oriente. Un ulteriore motivo di soddisfazione può venire dalla constatazione che molti dei musicisti e cantori popolari italiani che via via sono venuti apparendo nei concerti «urbani» di musica popolare hanno trovato nuova presenza nei loro specifici contesti, fino a configurarsi come occasione di ripresa, locale, di «vita popolare». Questa «funzionalizzazione» si colloca nel quadro di un più generale processo di ricerca di identità delle diverse comunità che, pur partecipi totalmente alla vita moderna, tentano di conservare una loro specificità che è elemento di ulteriore ricchezza e possibile strumento difensivo, almeno in parte, contro le pressioni omogeneizzanti. Ciò è avvenuto soprattutto con i suonatori, attorno ai quali, magari in disparte o addirittura dimenticati da alcuni anni, ha ripreso vita la pratica del ballo, con esiti, in alcune zone, di notevole consistenza e di prevalente partecipazione giovanile.
Tutto questo significa che il lavoro svolto tra la fine degli Anni Cinquanta e la metà degli Anni Settanta, giocando su diversi livelli (da quello del «revival» a quello dell'incentivazione della ricerca, da quello della riproposta dei musicisti popolari in ambiti «culturali» a quello dell'intervento degli enti locali, da quello della stimolazione politica a quello dell'azione «mondanizzante»), aveva rispondenza in una tendenza generale correttamente identificata (o, almeno, ipotizzata) e che la scelta di un arco ampio di intervento (senza prevenzioni) era, in sostanza, giusta. Certo rimane fermo in fatto che tutta questa operazione (operazione caratterizzante del «movimento» italiano, anche se in parte mutuata dalle esperienze antecedenti in America e in Gran Bretagna, e oggi osservata con molto interesse da altri paesi europei) si è sviluppata entro un sistema forte mente condizionato dalle regole consumistiche, attive sia oggettivamente (e con forze molto grandi e aggressive) sia, soggettivamente, anche nelle coscienze di quanti dicono di condannarle e di avere la capacità di non soggiacervi passivamente. Di qui le ragioni di preoccupazioni in questo presente che sembra offrirci larghe aperture d'attenzione per le musiche «altre» e vede il moltiplicarsi di iniziative in questa direzione.
Non si può tacere, in un discorso come questo, che, a differenza di altri paesi, il livello informativo, generale e specifico, sulla musica popolare ed etnica è, da noi, piuttosto basso. Il che propone rischi non indifferenti di iniziative tanto generose quanto scorrette, la cui conseguenza potrebbe anche essere una gran confusione e, quindi, un rigetto a breve scadenza di questa musica, contestualizzata nel sistema delle mode. Altrove, con il supporto di un'informazione più corretta, già si sono venute formando fasce di pubblico in grado di porsi di fronte alla musica popolare ed etnica con capacità selettive e critiche, capaci, cioè, di discernere il buono dal cattivo, il vero dal falso, esattamente come accade per la musica cosiddetta «classica», per esempio, entro la cui attività il margine di mistificazione è assai ridotto (ma non inesistente, d'accordo). In questo destino, la musica etnica e popolare potrebbe subire la stessa sorte (o anche peggiore) della musica «antica» (la cui riscoperta non è fatto indipendente dalla scoperta della musica popolare ed etnica); musica «antica» a proposito della quale è facile cogliere un livello elevato, oggi, di avventuroso dilettantismo. Tra l'insopportabile branduardismo e la ricerca seria s'esprime attualmente, da noi, un arco di attività e presenze non sempre delimitato da segnali distintivi evidenti a tutti che coinvolge, in una sorta di ambiguo neo-mediovalismo, o neo-rinascimentismo, un fatto musicale di proporzioni consistenti. In più c'è da dire che, se per la musica «antica» fonti informative e critiche serie pur esistono, per quella popolare ed etnica lo spazio della referenza ad ampia disposizione (così come l'eredità critica) è assai più ristretto. Con la conseguenza di un campo molto più libero alle iniziative dilettantistiche, espresse, magari, in buona fede. Basta vedere quanti ragazzetti con pochi rudimenti «orali» di musica «altra» si definiscono tranquillamente etnomusicologi, o etnomusicologi vengono definiti anche a livello dì pubblicistica autorevole. Quegli stessi giornalisti che non chiamerebbero mai cardiologo un infermiere del Policlinico, o italianista un diplomato di istituto tecnico, tranquillamente etichettano come etnomusicologo il primo giovanotto che, con un disco dei Chieftains in un mano e un disco di Ravi Shankar nell'altra, si dà da fare parlando, o scrivendo, o organizzando cose di musica popolare o etnica.
Non si vorrebbe che la troppo buona volontà di questi nuovi adepti della musica popolare ed etnica, in questo quadro di generale disinformazione e di generale approssimazione culturale, portasse ad un consumo rapido o anche rapidissimo, per cattivo uso, di una fascia di cultura musicale che, invece, merita il più grande rispetto e la più vigile prudenza, E ciò non soltanto, o tanto, per una preoccupazione moral-cultural-politica, ma anche in ragione della convinzione che un'acquisizione corretta, continuata, profonda di queste «altre» realtà musicali costituisce un arricchimento determinante per la nostra stessa coscienza musicale e culturale, non solo in termini «quantitativi», ma anche in termini di radicale modificazione del nostro modo di «sentire» la musica, tutta la musica, di porci innanzi la musica, tutta la musica. Compresa la «nostra».
Che il quadro in cui questo vivo interesse per la musica popolare ed etnica si colloca offra motivi di preoccupazione è mostrato da vari fatti che sono, già oggi, sotto i nostri occhi. E uno è, a mio giudizio, particolarmente segnalante.
Infatti, se la considerazione sulla scarsa preparazione di alcuni anche tra i più attivi «operatori» può correggersi nella fondata speranza di un progressivo acquisto dì conoscenze ed esperienze («Nessuno nasce professore», si dice giustamente e, aggiungo, non è necessario aspettare di essere «professori» per muoversi, agire, operare ed esprimersi), più problematica, è l'avvertibile tendenza, che oggi incomincia ad esprimersi, verso il privilegio dell’«esotico», nei confronti della musica popolare italiana. Nessuno può dire, ci mancherebbe altro, che nel filo del crescente interesse della musica degli «altri» non si debba aprire l'attenzione a tutt'intero l'universo musicale, ma si ha l'impressione che, ancora una volta, quanto più ci è vicino, quanto più è connesso alla nostra storia, alla nostra cultura e, perché no, ai nostri problemi, finisca in una specie di serie B, di nuovo votata al folklorismo, di fronte a quanto, invece, ci arriva da lontano e per il quale non potremo, inevitabilmente, che avere un'attenzione più esteriore, più superficiale, comunque meno coinvolgente, oltre i coinvolgimenti estetici ed emotivi. Un simile atteggiamento è il risultato di un allineamento alla situazione di altri paesi europei (penso in primo luogo alla Germania e alla Francia) dove, per motivazioni profondamente «reazionarie», non si è sviluppato, o si sta appena sviluppando, con fatica e senza riferimenti alle strutture accademiche, ufficiali e istituzionali, una considerazione nuova e socialmente attiva per il patrimonio etnico vivente e nazionale. In quei paesi l'attenzione per 1' «altro» si è, così, rivolta nei vecchi confini coloniali, ignorando quanto invece ancora c'era nei confini nazionali. Basta vedere di che cosa si occupa l'etnomusicologia tedesca o quella francese ufficiale per rendersi conto del nessun interesse per la musica popolare tedesca o francese. E, parallelamente, non è un caso che alcuni gruppi giovani e vivi, in Francia soprattutto, ma adesso anche in Germania, guardino all'esperienza italiana del secondo dopoguerra con un'attenzione tutta particolare, cercando di ricavare da questa esperienza stimoli per una parallela azione nei loro rispettivi paesi. Diversa, e vicina a quella italiana, la situazione in Gran Bretagna. Diversa ancora, e con una propria fisionomia (carica di problemi), la situazione nei paesi dell'est.
La vocazione all'esotismo segna, dunque, un oggettivo riflusso rispetto a quel movimento che, in Italia, su basi molto fragili, con il concorso di forze per lo più volontaristiche (almeno fino ad anni molto recenti), ha voluto affermare il valore preminente dell'attenzione verso la nostra realtà, in una prospettiva anche dichiarata di disegno politico, oltre che culturale. E segna, contestualmente, un cedimento alle tendenze neo-spiritualistiche che entrano a corrodere l'edificio della ragione portate sull'onda di emergenti concezioni mistiche e neo-religiose la cui presenza è ogni giorno più subdolamente avvertibile anche in fasce di coscienza laica e di sinistra. Certo sto esagerando, certo sto raffigurando una prospettiva distorta, ma non mi sembra lontano il momento in cui si realizzi una saldatura fra lo spiritualismo pieno di ambiguità politiche dell'irrazionalismo orientale e le tendenze restaurative e integraliste che crescono nell'area del folklore.
[1] Vorrei, ancora una volta, esporre le ragioni perché non mi piace la definizione di «musica, extra-colta», che continua a circolare. La distinzione dell'universo musicale in due grandi categorie: musica colta / musica extra-colta, a me pare tardiva conseguenza di unii mentalità europeo-culto-centrica. Una simile dicotomia, infatti, riconosce diritto di distinzione ad una delle tradizioni musicali dell'umanità, ponendo tutte le altre in una unica categoria, non meritevole (almeno in prima istanza) a riconoscimenti specifici. Cioè: da un lato alcuni secoli dì creatività e attività musicale delle egemonie culturali europee (musica colta), da un lato, tutte assieme, le tradizioni musicali, fra loro diversissime, delle classi popolari europee, dei popoli che abitano gli altri continenti, con le loro interne distinzioni di culto e popolare, del jazz, della musica di consumo. La definizione «extracolto» è mutuata, evidentemente, dalla definizione già ampiamente corrente «extraeuropeo», definizione che nasce e si configura proprio (anche storicamente) quale espressione dell'eurocentrismo dell'era dell'imperialismo euro-borghese. Un amico sudamericano mi diceva, tempo fa: «Che effetto vi farebbe, a voi europei, se vi trovaste definiti, da noi americani, come «extra-americani»? E allora, perché noi dobbiamo essere «extraeuropei»? C'è poi il fatto che quell'extra è ulteriormente ambiguo, in quanto può venir «sentito» (escluso che qualcuno lo voglia intendere come «super» «superiore» e, di conseguenza «supercolta») nel significato, del resto pertinente allo specifico uso, di «fuori», cioè come «fuori dell'area colta», nell'area del non colto. La qual cosa diventa assurda (anche nel quadro di una visione tradizionale di «livelli» culturali) se si pensa alla grande e «coltissima» tradizione della musica «colta» dell’Oriente dell'Islam, con tanto di teorizzazione, di scuola, di codificazione anche notativa (se pur in termini diversi da quelli della musica «colta» dell'Europa), di estetica esplicita, di referenza filosofica, di consapevolezza storica.