Domenico Ferraro
Roberto Leydi e il "Sentite buona gente"
In promozione a 16 euro invece di 32
Musiche e cultura nel secondo dopoguerra
2015, € 32
Formato 17x21, 56 foto in b/n, pp. 550
In offerta con il 5% di sconto
Promosso da Roberto Leydi per la stagione 1966-’67 del Piccolo Teatro di Milano, con la consulenza di Diego Carpitella e la regia di Alberto Negrin, il Sentite buona gente intendeva attestare l’esistenza di una cultura musicale ‘altra’ attraverso la viva voce dei suoi protagonisti: i musici terapeuti del Salento, le sorelle Bettinelli di Ripalta Cremasca, i cantori di Carpino, la Compagnia Sacco di Ceriana, i suonatori di Maracalagonis, gli spadonari di Venaus, i musicisti e danzatori di San Giorgio di Resia e i tenores di Orgosolo accompagnati da Peppino Marotto.
Concepito in polemica con il Ci ragiono e canto di Dario Fo e del Nuovo Canzoniere Italiano, lo spettacolo costituiva in realtà un provvisorio punto di arrivo nella straordinaria carriera di un autore che attraversa da protagonista gran parte della cultura italiana del secondo Novecento, in una straripante ricchezza di relazioni intellettuali, da Elio Vittorini a Paolo Grassi, da Giorgio Strehler a Enzo Paci, da Tullio Kezich a Oreste Del Buono, da Enzo Jannacci a Giorgio Gaber, e in una ininterrotta solidarietà di intenti con Luciano Berio e Umberto Eco, gli amici di tutta una vita. L’inedito ritratto dell’autore del Sentite buona gente accompagna così la ricostruzione di un frastagliato ambiente culturale, contrassegnato dall’insofferenza verso rigide ripartizioni di ambiti disciplinari e dall’avversione verso tendenze e ideologie affermatesi nel frattempo a Roma, all’interno del principale partito della sinistra, quando la “realtà effettiva” del mondo popolare animava una pluralità di posizioni teoriche, da De Martino a Pasolini, da Calvino a Fortini, prima di essere riassorbita nelle intenzioni militanti di un “teatro politico” e di una “canzone di lotta e di protesta”.
Con le fotografie di Luigi Ciminaghi e di Alberto Negrin e testi inediti di Carpitella e Negrin; nel DVD la riduzione televisiva dello spettacolo e, nel CD, una selezione dei brani musicali registrati nel corso delle ricognizioni sul campo anche in Abruzzo e Toscana, con brani delle cantatrici di Cerqueto di Fano Adriano, dei Cardellini del Fontanino e dei poeti improvvisatori di Arezzo che non presero poi parte allo spettacolo.
Ascolta il brano El me murùs delle sorelle Bettinelli
Dall'introduzione
(…) La “prima rappresentazione di canti, balli e spettacoli popolari”, affidata interamente alla viva voce dei protagonisti di una tradizione misconosciuta o negata dalla cultura ufficiale, si realizzava all’interno della programmazione di una delle più prestigiose istituzioni nazionali, nel ventennale della sua fondazione, grazie all’incontro tra due intellettuali accomunati dalla convinzione che dal mondo popolare potessero derivare indicazioni, suggestioni e temi utili a un rinnovamento del teatro. Oltre che in una consuetudine di rapporti avviata già sul finire degli anni Quaranta, l’intesa tra Roberto Leydi e Paolo Grassi si fondava, infatti, sulla convinzione, propria di tutta una generazione, che lo ‘spettacolo’ costituisse l’espressione più compiuta di una ‘nuova cultura’ che, in una dimensione pubblica piuttosto che nel chiuso di una pagina, doveva manifestarsi come lievito e agente di cambiamento. Cresciuto alla scuola di un eccezionale promotore culturale come Ferdinando Ballo, Leydi considererà sempre spettacoli e concerti come “azioni pubbliche” che, destinate a scuotere le coscienze, tanto più efficacemente potevano raggiungere i loro obiettivi quanto più coerentemente si risolvevano “nell’arbitrio del fatto teatrale”, secondo le forme proprie di un genere che non aveva bisogno né di interessate tutele né di strumentali giustificazioni, quasi che dovesse nobilitarsi facendosi veicolo di diffusione di determinati contenuti, mutuati magari da ambiti ritenuti più convenienti al decoro di uno studioso. Al contrario, la “situazione oggettiva di ricerche e di studi”, che è il riferimento costante di ogni sua iniziativa in quest’ambito, costituiva il sostrato sul quale doveva reggersi una proposta artistica che, trasfigurando quegli stessi dati in una compiutezza formale che li trascendeva, in se stessa trovava la propria ragione d’essere. Convinzioni precocemente maturate da Leydi, all’interno di una riflessione sul ‘teatro di musica’ avviata già nel 1950 e proseguita ininterrottamente, fino ed oltre il Sentite buona gente, anche nella frequentazione quotidiana di registi e compositori, allo stesso modo inclini a ravvisare nell’originalità di una forma e di un linguaggio il valore e l’importanza di ogni cimento artistico: le stesse convinzioni che si ritrovano alla base di una proposta così inusuale, come quella andata in scena al Lirico di Milano tra febbraio e marzo del 1967, attorno alla quale Leydi non avrà difficoltà a intendersi con un uomo di spettacolo come Alberto Negrin in merito alla centralità di alcuni “fatti scenici” e di specifici “mezzi teatrali”, trovando nuove conferme alle ragioni della sua più duratura collaborazione con il regista Filippo Crivelli.
Per la ‘materia’ affrontata, per le circostanze nelle quali è maturato e per gli interessi prevalenti tanto dell’autore quanto del consulente dello spettacolo, il Sentite buona gente si collocava allo stesso tempo all’interno di un dibattito attorno al significato del canto popolare e alle modalità di approccio più pertinenti alla sua natura, avviato già alla fine degli anni Quaranta e allora particolarmente avvertito in alcuni ambienti inclini a coniugare ricerca e spettacolo in una prospettiva dichiaratamente militante. A questo loro primo incontro Leydi e Carpitella arrivavano però da percorsi di vita e di studio notevolmente diversi e, soprattutto, con alle spalle l’assunzione di posizioni contrastanti riguardo alla promozione e valorizzazione delle musiche di tradizione orale. Le divergenti valutazioni date sull’immediato, come anche i successivi cambiamenti di giudizio, nel merito di questa loro esperienza attestano la precarietà di alcune sistemazioni teoriche che, nel vivo di situazioni come il Sentite buona gente, avrebbero trovato il modo di assestarsi e affinarsi, in un lento processo di decantazione per cui, soltanto verso la fine degli anni Settanta, si sarebbero trovati d’accordo sulle ragioni più profonde di quella loro lontana iniziativa, sia pure all’interno di visioni complessive separate ancora da rilevanti differenze. Segnato dalla volontà di portare ‘fuori dalla riserva’ le espressioni del mondo popolare, al fine di affermarne l’esistenza come una componente essenziale della cultura contemporanea, quello spettacolo era troppo in anticipo sui tempi perché le istanze e i significati di cui era carico potessero essere assunti coerentemente dagli stessi autori che ne avevano promosso la realizzazione.
Concepito da Leydi in polemica con il Nuovo Canzoniere Italiano, dal quale si era appena distaccato sulla base di un dissenso meno profondo di quanto avrebbe supposto Carpitella, il Sentite buona gente assume un valore per molti versi paradigmatico riguardo alle ricorrenti discussioni sulla legittimità di portare ‘fuori contesto’ esecutori di musiche tradizionali o anche sul possibile riuso dei repertori popolari, cristallizzatesi attorno ad argomenti che si ripropongono inalterati, di generazione in generazione, in una inossidabile coazione a ripetersi. Abitudini e comportamenti, invocati oggi come indizi e riprove di una modernità malata e corruttrice, contrassegnavano già l’agire di quei musici e cantori ospitati al Lirico di Milano, ritenuti tuttavia depositari di un’autenticità che, per Leydi, era funzionale a seducenti quanto fragili miti di fondazione, dagli esiti quanto mai problematici. Il rimando a un ipotetico momento, in cui intere comunità si sarebbero strette nella condivisione di determinati patrimoni secondo modalità di formazione e trasmissione proprie di una cultura orale, rischia infatti di velare lo sguardo rivolto al presente, in cui ancora si davano, e continuano a darsi, attorno ai repertori popolari fenomeni rilevanti che, per quanto diversi da quelli propri di società rurali e contadine nell’Italia degli anni Cinquanta, sembrano irriducibili alle forme espressive e alle modalità esecutive della musica colta. Nel lamento attorno alla decadenza dei tempi, alimentato oggi dalla presunzione che in un mondo globalizzato non vi siano più culture ‘altre’, si disperde così la possibilità di esprimersi attorno a produzioni culturali comunque molto diverse, anche solo sulla base di un criterio estetico, magnificamente riassunto da Luciano Berio nell’opportunità di giudicare la musica, ogni musica, ‘bella o brutta’, a dispetto di categorie interpretative, sistemi di pensiero e pregiudizi ideologici.
Il nitore abbagliante di alcune raffigurazioni, la cui effettiva realtà storica è smentita dai racconti attorno alle difficoltà a rinvenire, già allora, ‘autentici’ esecutori di ‘vera’ musica tradizionale, trasfigura inoltre, fino ad occultarle, le condizioni reali in cui si svolgevano, anche negli anni della perduta innocenza, le azioni a favore delle culture orali. Con il pensiero rivolto a quanto era successo negli Stati Uniti con “l’opera appassionata e intelligente di quegli studiosi e di quei raccoglitori che hanno saputo trasferire le loro esperienze dagli ambienti di studio alla vita quotidiana, che cioè hanno restituito al popolo quanto aveva loro comunicato”, Leydi aveva evidenziato come l’attenzione verso il folklore, suscitata dall’impegno di alcune cerchie intellettuali agli inizi degli anni Cinquanta, in Italia fosse rimasta confinata all’interno di alcuni circuiti radiofonici che, inaccessibili in gran parte del territorio nazionale, erano poco o nulla frequentati dai ceti popolari ai quali avrebbero dovuto rivolgersi in via privilegiata: una constatazione che è alla base non solo del suo prolungato impegno nelle fila del folk revival ma anche della sua continua presenza all’interno dei sistemi di comunicazione di massa, nella disincantata disposizione ad adoperare al meglio gli strumenti e le possibilità offerte dall’industria culturale, senza i pregiudizi e i sospetti nutriti da intere generazioni di militanti. Ma anche quando, in anni di più furiose passioni ideologiche e perduranti entusiasmi collettivi, i repertori popolari saranno assunti come espressioni di una contestazione globale al ‘sistema’, le musiche di tradizione orale, poco importa se ‘autentiche’ o rivisitate, sono rimaste appannaggio di rumorose minoranze, senza mai costituire un’alternativa di massa alle più seducenti proposte avanzate dall’industria discografica. L’attenzione verso il ‘nazionalpopolare” e le musiche di consumo, invocata spesso come concausa del tramonto della stagione di massimo interesse per le forme espressive della tradizione orale, è stata una costante nella politica culturale dei partiti della sinistra italiana, ai quali però si continuano a rimproverare imprecisati tradimenti, posti all’origine di derive determinate da altri e ben più complessi fattori. Alla ‘musica popolare’, in ogni caso, arrise allora una straordinaria fortuna, attestata eloquentemente dal moltiplicarsi di ‘canzonieri’ che, organizzati su basi prevalentemente territoriali, domineranno la scena alternativa italiana per buona parte degli anni Settanta, secondo un modello di intervento forgiato da Leydi nel corso della sua militanza nei ranghi del Nuovo Canzoniere Italiano. Una fortuna equivoca, però, che portava in sé le ragioni del suo rapido declino in quanto i soverchianti significati politici avrebbero offuscato ogni riferimento alle forme dell’espressività popolare. L’incontestabile verità di quanto dichiarato da un protagonista di quegli anni, che con comprensibile orgoglio ha sottolineato come nel ’68 non ci fosse altra musica che la “nostra”, andrebbe pertanto integrata con la precisazione che gli ‘operai e gli studenti’ che in corteo cantavano Contessa o Cara moglie lo facevano senza nemmeno sospettare un qualche vago legame con una tradizione di canto popolare, tanto quelle ‘canzoni di lotta’ si erano ormai distaccate dalla ‘matrice’ dalla quale si riteneva dovessero derivare nell’impegno ad ‘attualizzare’ i repertori tradizionali. Investita di improbabili disegni egemonici, l’appassionata riscoperta della musica popolare non sarebbe così sopravvissuta al tramonto delle fervide speranze di un cambiamento radicale della società italiana, a dimostrazione di quanto fosse stato strumentale quell’interesse, subordinato ad altri fini più che rivolto alla scoperta di un mondo e di una “civiltà che ignoriamo, anche se convive con noi e costituisce la fonte della nostra coscienza civile e culturale”, come si leggeva nel programma di sala del Sentite buona gente.
Lo spettacolo portato in scena al Teatro Lirico, alla vigilia del ’68, ha pertanto un valore emblematico anche rispetto a dinamiche e processi nei quali la “realtà effettiva” del mondo popolare sarebbe stata presto riassorbita nelle intenzioni militanti di un ‘teatro politico’, la cui genesi va rintracciata per molti aspetti nell’alleanza stretta, attorno al Ci ragiono e canto, da Dario Fo con Gianni Bosio e il Nuovo Canzoniere Italiano. Gravido di significative implicazioni teoriche, sull’immediato avvertite più da Carpitella che da Leydi, il Sentite buona gente aveva offerto una scintillante riprova della capacità dei depositari della tradizione orale di rappresentare i propri saperi senza bisogno di mediazioni o tutele e, allo stesso tempo, aveva evidenziato l’importanza di alcune forme espressive e determinate modalità esecutive, al di là di ogni “avvilente uso pratico” dei repertori popolari. Motivi ai quali, molti anni dopo, si sarebbero concordemente appellati tanto Leydi quanto Carpitella per proseguire nel loro impegno a favore di una cultura e delle sue espressioni, contro ogni approccio esasperatamente ‘specialistico’ che, in alcuni casi, appare come esito residuale della fine delle ‘grandi narrazioni’ sviluppatesi, tra gli anni Sessanta e Settanta, attorno alla ‘musica popolare’. Quegli stessi canti, assunti ieri come veicolo e strumento di impossibili palingenesi, sono considerati oggi ‘reperti’ di un mondo definitivamente scomparso, mentre l’equivoca assimilazione del folklore ad alcune sue espressioni storicamente determinate genera raffigurazioni unidimensionali del presente, quali neppure il più apocalittico lettore dei francofortesi avrebbe osato immaginare.
(…) Quale sia l’esito di questa mia fatica, valuterà il lettore al quale sono consapevole di consegnare qualcosa di non molto equilibrato: troppo per un’introduzione a uno spettacolo e troppo poco per una monografia su Leydi per la quale avrei dovuto fare molto altro ancora. In particolare, sarei dovuto andare oltre il Sentite buona gente,che invece costituisce il limite cronologico dove si arrestano queste pagine: lo sguardo gettato oltre il 1967, infatti, si sofferma solo su istanze e temi enucleati da Leydi e Carpitella nel corso di quella loro esperienza in comune, al fine di verificarne l’incidenza nelle loro successive elaborazioni e prese di posizione.
Esaurite ‘avvertenze’ e ‘istruzioni’, non mi resta che confidare nella pazienza del lettore affinché trovi il tempo di soffermarsi anche sulla prima parte del volume, che riguarda solo marginalmente il Sentite buona gente. Per quanto, in più tardive riflessioni, Leydi abbia legato questa sua iniziativa a un capitolo del tutto nuovo e per nulla scontato della sua attività professionale, qual è stato il suo approdo all’università italiana e il suo più marcato impegno all’interno di una disciplina, lo spettacolo era in realtà il punto di arrivo, nemmeno definitivo, di un’entusiasmante stagione della sua vita, avviata nel “clima oggi non facilmente immaginabile di speranze e di illusioni, nutrite da un’ansia viva di conoscere e di sapere, di aprirsi al mondo”, della Milano del dopoguerra e in “un ambiente di straordinaria e contraddittoria libertà qual è stato, tra gli anni ’40 e gli anni ’50, il quotidiano del PSI”. Era dunque necessario iniziare da lì il racconto.
L'indice
- Avvertenze e istruzioni 7
- Tra L’Europa e l’America, Milano 24
- Il ‘giovane’ Leydi 52
- Paesaggi e relazioni 84
- Tra ‘apocalittici’ e ‘integrati’ 115
- Da Gianni Bosio a Gino Negri 141
- Un sodalizio imperfetto 166
- Un evento ‘quasi’ storico 191
- L’equivoco dell’autentico 214
- A parti inverse 242
- Dopo il Sentite buona gente 271
- Cattaneo tra maggianti e marionette 301
- Riferimenti bibliografici 331
Il DVD 377
Piccolo Teatro di Milano, Incontri con il mondo popolare
Diego Carpitella, Roberto Leydi, Le ragioni dello spettacolo
Alberto Negrin, Note sulla realizzazione
Sentite buona gente
Il DISCO 411
LE FOTOGRAFIE 451
APPENDICI 513
Diego Carpitella, Contributo alla nota introduttiva dello spettacolo “Voglio cantare a chi mi sta vicino” al Piccolo Teatro di Milano
Diego Carpitella, Nota
Alberto Negrin, Rappresentare il mondo popolare
INDICE DEI NOMI 529
Il CD
Cardellini del Fontanino
1. Mamma non mi mandare a prender l'acqua
Cantori di Carpino
2. Pigghiëtë questa lettiri che t’ammannati
3. Scusi Nënnellë su lu cantin’a mali/ Jerë serë cumparì ’na stella d’orë
4. Donnë che va’ e venë da Casertë/ Accomë j’èja fa’ p’amà ’sta donnë
Musici-terapeuti del Salento
5. Tarantella neretina indiavolata
6. Tarantella neritina in Re maggiore
Poeti improvvisatori di Arezzo
7. Ottave improvvisate: contrasto sulle proprie doti poetiche
Cantatrici di Cerqueto di Fano Adriano
8. ‘Ndonemëlo vatocco la cambane
9. Tand’anna ci so messa a fa un castello
Musicisti, cantori e danzatori di San Giorgio di Resia
10. Ta ùkana
11. Cérni patök
12. Ta zagatina
Tenores di Orgosolo
13. Su pitzinneddu
14 Càntigu a sa sèria/ Su passu torrau
15. Canto a boghe ‘a ballu/ Muttos
Suonatori di Maracalagonis
16. Danza campidanese
17. Ballu de is mucadòris
Le sorelle Bettinelli
18. Senti le rane che cantano
19. La ricciolina
20. El me murús al sta de là del Sere
Selezione, trascrizione e traduzioni testi poetici e note di commento ai brani di Maurizio Agamennone (Salento), Piero Arcangeli (S. Giorgio di Resia), Vincenzo Lombardi (Carpino), Marco Magistrali (Arezzo e Castel del Piano), Bruno Pianta (sorelle Bettinelli), Sebastiano Pilosu (Sardegna) e Gianfranco Spitilli (Cerqueto di Fano Adriano)
Alcune fotografie di Ciminaghi e Negrin
Un momento dell'esibizione dei musici-terapeuti del Salento
Docente di Storia della filosofia moderna all'Università di Roma-Tor Vergata, Domenico Ferraro si occupa anche di cultura italiana del Novecento. Direttore della Rete degli archivi sonori, per Squilibri ha curato, assieme ad Arnaldo Bonzi, Giacomo Pozzi Bellini. Viaggio in Sicilia (estate 1940).
una biografia non convenzionale, ravvivata da una forte adesione emotiva e affettiva. Soprattutto, è un'indagine sul significato reale non mitico dell'etnomusicologia: disciplina sul cui oggetto fioriscono innumerevoli equivoci. (...) E' indubbio che il libro di Domenico Ferraro sia la più bella indagine sull'etnomusicologia italiana che sia apparsa dopo la morte di Leydi: la più generosa, la più esauriente, la più linguisticamente meritevole. Sia benvenuto, finalmente, il raffronto tra due spettacoli tra loro in polemica il Ci ragiono e canto di Dario Fo e il Sentite buona gente promosso da Leydi Quirino Principe, Il Sole 24 ore
Non mi aspettavo un ritorno in forze di un blocco di memoria e di documento così potente come l'arrivo, in un'Italia deformata e dispersa, di Roberto Leydi e di una poderosa e profonda ricostruzione di ciò che è stato e di ciò che ha fatto in un momento fondamentale della sua vita (...) Leydi chi era? Questo libro ci dice che era un intellettuale acuto, arguto, colto nel senso di Eco (sapere, cercare, elaborare e rifare) con due insoliti e rarissimi talenti: la vastità della esplorazione. E un lavorio creativo senza sosta. Allo stesso tempo era infaticabile, pacioso e allegro. E si teneva di fianco ai grandi eventi, come se non avesse contribuito a scoprire il percorso, trovare l'idea e organizzarla, mobilitando sempre, come se fosse un capo (che non voleva essere) o un docente (l'altra sua grande allergia). (...) Per fortuna non solo si legge, si impara, si ricorda e si rimpiange, con questo libro. Si ascolta. Ci sono, infatti, i cd. Furio Colombo, Il fatto quotidiano
la lettura di questo ampio lavoro, un volume di più di cinquecento pagine, è molto appassionante: la passione dell'autore si comunica di parola in parola (...) Un filone, quello della musica popolare, che non va dimenticato ma va tenuto vivo e recuperato e per farlo c'è una maniera, tra le varie maniere, quella di ascoltare e di meditare anche sulle considerazioni che fa Domenico Ferraro in questo libro Francesco Antonioni, Radio Tre Suite
una ricostruzione magistrale non solo dell'affascinante biografia intellettuale dello studioso milanese ma anche di un periodo cruciale della vita culturale italiana, dalla nascita dell'etnomusicologia al dibattito sul folk revival. (...) Un libro oltremodo prezioso, sorretto da una vastissima documentazione, anche inedita, e da un ricco apparato fotografico (...) al quale ci si può accostare da diverse angolazioni: saggio sul folk revival degli anni Sessanta, ricostruzione di una pagina poco conosciuta di vita culturale del dopoguerra, ritratto di un 'maestro' ancora oggi insuperato Sergio Torsello, Il Nuovo Quotidiano della Puglia
la mostra multimediale “Roberto Leydi e il Sentite buona gente” è un MUST TO VISIT, ci fa viaggiare indietro nel tempo, ci fa conoscere un patrimonio di musica popolare che rischia di finire dell’oblio e ci fa rivivere attraverso le registrazioni dell’epoca, la flagranza di un sentimento popolare minacciato sempre più dall’estinzione Roberto Vigliotti, Amadeus
Un libro destinato a restare. (…) Forse è un bene che vicissitudini editoriali abbiano condotto un filosofo come Domenico Ferraro (…), che si dichiara “analfamusico”, piuttosto che musicologi a intraprendere questa enorme, faticosissima indagine rivelatrice (...). L’opera di Ferraro assume la fisionomia di una densa discussione sulla storia delle idee nel nostro Paese, messa in moto attraverso la lente di osservazione di chi è al di fuori di eredità disciplinari o di scuole accademiche riconducibili agli indirizzi di studio etnomusicologico. Ciro de Rosa, Blogfoolk
una preziosa monografia sul meno ortodosso dei nostri musicologi (...), il manifesto di una ossessione puntuale per la restituzione tout court delle culture musicali minoritarie, che qui si rivelano nella loro cruda e delicata bellezza, spogliata degli abiti simbolici e ideologici. Il volume è anche il memoir di un evento che conserva l'urgenza della passione. Di questo ricercatore laico, atipico osservatore del contemporaneo, studioso di culture popolari, cabaret, fumetti e storia sociale, Umberto Eco scrisse parole semplici e definitive: "trovava sempre nuovi territori da esplorare" Riccardo Piaggio, Il Sole 24 ore
"Sentite buona gente" è una delle formule più usate dai cantastorie per iniziare il loro “treppo”, insieme a “Signori se mi assiste la memoria” o “Ascoltate in silenzio la storia",ed è con queste esortazioni che invitiamo a leggere il libro di Domenico Ferraro, a vedere lo spettacolo in DVD ed ad ascoltare i brani del CD, documenti di grande valore culturale e storico. Tiziana Oppizzi e Claudio Piccoli, Il Cantastorie on line
Un bellissimo libro, con un corposo saggio che ricostruisce la genesi e l'impatto di un evento che fece epoca nel 1967 (...) Domenico Ferraro è un filosofo, non un musicologo o un critico musicale, quindi ha anche una certa indipendenza di giudizio su temi che poi si prestarono a molte polemiche. Il suo libro è però un ritratto ragionato dell'etnomusicologia italiana vista attraverso il pensiero e l'opera di Roberto Leydi Attilio Scarpellini, Qui comincia Rai Radio3
un libro di oltre cinquecento pagine in cui viene ricostruito, oltre alla biografia intellettuale di Roberto Leydi, un'intera stagione di riscoperta della cultura popolare, tra spedizioni sul campo e accesi confronti. (...) Ciò che salta agli occhi rivedendo le nitide immagini del Sentite buona gente è soprattutto la grande consapevolezza da parte degli interpreti (...) che non sono 'oggetto' di una riscoperta. Sono 'soggetti' che provengono da una tradizione antichissima ma, allo stesso tempo, sanno reinterpretarla in maniera fluida. (...) Oggi che il rapporto con la riscoperta della cultura popolare è radicalmente mutato, l'opera di Leydi e di Carpitella costituisce ancora un termine di paragone imprescindibile Alessandro Leogrande Corriere del mezzogiorno
Uno splendido volume ci ricorda Roberto Leydi e il lavoro di ricerca confluito nello spettacolo Sentite buona gente (...) un documento eccezionale, che possiede un grande fascino, quale documentazione di un'impresa che ha lasciato tracce fondamentali nell'etnomusicologia e nell'etnografia italiane Alessandro Zanoli, Azione-Canton Ticino
Attraverso un'impressionante profusione di documenti e una meditata critica dei testi -insomma, una storiografia rigorosa che però non rinuncia alle prerogative della bella scrittura- Ferraro ritrae un intellettuale, Leydi, in grado di coniugare pensiero e azione civile. (...) Uomo di città", Leydi ci è presentato come da subito impegnato a sondare tutte le manifestazioni della musica popolare, comprese quelle che la nascente etnomusicologia italiana avrebbe presto marginalizzato perché compromesse da mass-media e società dei consumi. L'ampio respiro del volume consente di mettere in prospettiva le polarizzazioni ideologiche che hanno segnato il dibattito etnomusicologico, specialmente in relazione al "sodalizio imperfetto" con Gianni Bosio Maurizio Corbella, Amadeus
Il valore intrinseco del documento, proposto in audio e in video attraverso una riduzione televisiva, è amplificato dalla cura dell'edizione, comprendente un ricco apparato storico-critico e fotografico. Resta il rimpianto per una stagione irripetibile di fermento e vivacità intellettuale, che pare lontana anni luce, non solo cinquant'anni Alessandro Hellmann, Rockerilla
In Usa c’erano personaggi leggendari come John Lomax, che registravano sul campo il vero folklore, qui c’era Leydi e questo libro è una parte della sua lunga storia Antonio Lodetti, Il giornale
Una biografia intellettuale (…) con una vastissima e, in parte, inedita documentazione, (…) dalla quale emerge non solo il ruolo di Leydi quale padre fondatore, assieme a Diego Carpitella, dell’etnomusicologia italiana, ma anche la sua fondamentale presenza negli ambienti intellettuali più fecondi della Milano, e dell’Italia, del dopoguerra. Giulia Giannini, Musica/Realtà
lo spettacolo rappresenta un momento decisivo del dibattito intorno alla natura della musica e della cultura popolare in Italia. Domenico Ferraro da lì parte per ricostruire quel contesto culturale e intellettuale, con la curiosità di un appassionato di quelle musiche, e la competenza "scientifica" di storico della filosofia, che lo portano a formulare domande in modo diverso, e a seguire sentieri non ancora percorsi dagli esperti della materia. È una storia che non riguarda, allora, solo lo spettacolo, o solo quelle musiche, ma in blocco gli ultimi cinquant'anni di storia intellettuale italiana. (…) Un libro, allora, importante e destinato a durare, e a generare ragionamenti e discussioni Jacopo Tomatis, Il giornale della musica
Uno spettacolo che si contrappose a Ci ragiono e canto di Dario Fo, che nello stesso periodo propose musiche popolari ma realizzate da artisti come lo stesso Fo o Paolo Ciarchi, mentre Leydi dava voce a musicisti dilettanti. Un dibattito culturale altissimo e adesso quasi incomprensibile. Per fortuna a riassumerlo ci pensa il libro di Domenico Ferraro Luigi Bolognini, La repubblica
Ci sono figure, nella storia della musica, della ricerca, della cultura in generale, in ogni senso possibile, che sembrano attraversare lo spazio di tempo loro concesso dal fato con una sorta di trionfante, gargantuesca voluttà di assorbire tutto, tutto conoscere e restituire agli altri in nuove combinazioni che aprono infiniti altri punti di vista e prospettive. Un gigante così è stato Roberto Leydi che, nei poco più settant’anni di vita assegnati, ha fatto in tempo a mettere in moto tante ‘macchine della cultura’, musicale e non, che ci vorrebbero tre vite per valutarle correttamente. (…) il tutto lo ritrovate negli splendidi scatti raccolti da Scianna, nel volume In viaggio con Roberto Leydi, necessario pendant al recente e corposissimo libro di Ferraro, Roberto Leydi e il Sentite buona gente. Guido Festinese, Alias-Il Manifesto
Intorno alla varietà di interessi e all’impareggiabile caapcità mediatica e organizzativa di Leydi, figura centrale del movimento culturale milanese della seconda parte del secolo scorso, viene tracciato un significativo quadro della Milano colta del secondo dopoguerra (…) con intelligenti osservazioni sull’illuminismo padano, e un accenno particolare sulla scuola di Ferdinando Ballo, sul ruolo anche sociale del Piccolo Teatro di Grassi e Strehler. E il libro intreccia sempre le vicende culturali con il ruolo di volta in volta assunto dalla sinistra italiana soprattutto in relazione al mondo della musica popolare legata alle cosiddette classi subalterne (…), toccando altresì un argomento che l’ambiente musicale ufficiale ha sempre evitato di approfondire, cioè le differenze di impostazione tra Leydi e Diego Carpitella (…) Sono di eccezionale interesse anche il CD e il DVD (…) Meraviglioso è pure il corredo di fotografie di Luigi Ciminaghi e di Alberto Negrin. Massimo Franco, Musica Jazz
Ponderoso (oltre 500 pagine), denso, documentatissimo e ricco di parentesi e rimandi cronologici (…) Un caleidoscopio di relazioni, che oltre a rendere omaggio alla straordinaria curiosità intellettuale di Leydi, fa del libro di Ferraro una risorsa preziosa per chiunque intenda indagare sulla vivace scena culturale milanese del secondo Novecento Siel Agugliaro, Rivista di Musicologia
Il testo ponderoso, puntuale, veramente interessante di Ferraro (“è stato un lavoro lungo e appassionante”) ci racconta una pagina importante della formazione italiana degli anni sessanta, un momento storico di partecipazione sociale e culturale irripetibile, quando una performance da palcoscenico diventava un riferimento essenziale per una riflessione nazionale Elisabetta Randaccio, Cinemecum
Un articolato e approfondito ritratto del secondo Novecento (...) Il nome di Vittorini va e viene in queste pagine come il tema fondamentale di un rondò (...) L'onda dell'informazione supera la possibilità della recensione (...) A voler conoscere urge un impegno bibliografico di cui i romani Squilibri sono raro esemplare Piero Mioli, Nuova Informazione Bibliografica
Si tratta di un poderoso e avvincente affresco del dibattito musicale, letterario e politico italiano, a partire dall’immediato dopoguerra; un racconto – informatissimo e ben calibrato – di un’avventura intellettuale che culminò in uno spettacolo – il Sentite buona gente, del 1967, appunto – che (...) segnò e rappresentò profondamente il dibattito culturale e artistico di quegli anni, costituendo, probabilmente, il punto più avanzato di un dialogo fitto, quanto necessario, tra ricerca sul campo e sua traduzione teatrale Lello Voce, Il fatto quotidiano
Un affresco corposo e avvincente, la figura poliedrica dell'etnomusicologo Roberto Leydi, l'epoca complessa del post guerra italiano, una Milano in pieno fermento culturale e il Salento di Stifani che debutta su un palcoscenico nazionale. Non un poderoso volume di studi etnomusicologici, ma molto di più Giuseppina Casciaro, Qui Salento