Domenico Ferraro
(a cura di)
Il poeta e il cantastorie
Profazio canta Buttitta
2006, € 14
Formato 14x19, 18 foto in b/n, pp. 96
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Nell’incontro fra il grande poeta siciliano e il cantore calabrese confluiscono tutti i temi di un’irripetibile stagione di impegno meridionalistico inaugurata da Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre. Il dramma dell’emigrazione, le lotte dei braccianti per la terra, il flagello della mafia, entrano così prepotentemente a far parte del repertorio del canto popolare, in una concezione viva e attuale e non più sterilmente museale del folklore.
L’appassionata fede comunista dell’uno e l’individualismo libertario dell’altro si combinavano alla perfezione nel segno della comune adesione all’immaginario del mondo popolare meridionale e alla medesima vicinanza alla tradizione dei cantastorie.In questa operazione, d’avanguardia al tempo, giocano un ruolo determinante le musiche di Otello Profazio che sottolineano discretamente la forza della parola poetica, senza mai sovrastarla, rendendone tutte le sfumature, drammatiche, ironiche ed elegiache.
Con introduzione di Melo Freni, i cartelloni per cantastorie di Vincenzo Astuto, i testi poetici con traduzione e, nel cd allegato, tutti i brani di Buttitta incisi da Profazio con in più tre inediti, il volume ci guida alla conoscenza di una collaborazione tra due esponenti di rilievo della cultura popolare meridionale.
Ascolta il brano Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali
Leggi l'introduzione di Melo Freni
Ritorna Ignazio Buttitta ed è piacevole che ritorni attraverso la voce di Otello Profazio che, fra quanti lo hanno cantato, è sicuramente quello che maggiormente ne ha portato per il mondo la poesia, da cantastorie con la possibilità di girare da un continente all’altro. Profazio è stato e rimane un cantastorie piuttosto anomalo, parte dalla tradizione, molto spesso la reinventa, ma assai più spesso si lascia coinvolgere dalla poesia. Per lui Buttitta è stato il poeta ideale: perché popolare e colto ad un tempo. Ma anche Buttitta ne ha ricavato da Profazio, per la quantità, oltre che per la ricordata diffusione, da poterne fare un album.
Con questo non vogliamo dimenticare i vari Ciccio Busacca, Rosa Balistreri e quanti altri, chitarra al collo, sono stati interpreti straordinari di versi come La morte di Turiddu Carnevale, Il treno del sole, I pirati a Palermu. Ma Profazio, ripeto, è la voce che lo ha portato più lontano nel mondo, efficacemente.
Alla poesia di Ignazio Buttitta prestavano molta attenzione i cantastorie siciliani non solo per il suo valore intrinseco di genere letterario ma perché era poesia politica oltre che sociale. Cantare Buttitta significava aprirsi a grandi platee, e d’altronde, lui stesso, il poeta, aveva segnato la strada con i suoi recital “in piazza”, che non coincidevano soltanto con le Feste dell’Unità. Assai spesso in queste occasioni lo stesso poeta si portava appresso il cantastorie e così lo spettacolo diventava più completo. Ignazio era il migliore interprete di sé stesso, coinvolgeva le folle con la sua voce e la sua mimica, che sapevano di attore consumato, di mattatore, di istrione: aveva le pause giuste, sapeva come e quanto calibrare i timbri, come parlare e cosa dire alle piazze che, per lui, si infiammavano.
Detto questo dovremmo pensare che agli altri, quelli che lo cantavano andando al di là della recitazione, era riservato un ruolo minore? No, assolutamente no, perché la poesia di Buttitta annullava (ed annulla) ogni confronto, proponendosi come novità a seconda dell’interpretazione che se ne dà, fino all’estremo dello strumento pedagogico.
Dunque, poesia da leggere o da ascoltare? Leonardo Sciascia, nella sua introduzione a Io faccio il poeta ricorda che Ignazio Buttitta si risentiva con quelli che per prima volevano leggere la sua poesia “con gli occhi”: con lui stesso e con Elio Vittorini, “quasi che quello degli occhi sia un modo strano di leggere, poiché la vera lettura è quella che si ascolta, quella che viene fatta dalla voce del poeta, inseparabilmente, unicamente”. Infatti l’invenzione delle sue poesie da tutto poteva prescindere, da codificazioni e convenzioni persino grammaticali, mai però dalla sua voce. Regola, questa, per la verità, che ha accomunato in tutti i tempi un po’ tutti i poeti dialettali aperti alla lusinga del poetar-recitando, o ancor più del recitar-cantando, come –restando ai nostri giorni- per il veneto Biagio Marin, per il lucano Albino Fierro, per il romagnolo Tonino Guerra, che, unitamente a Buttitta, costituiscono, direi, i Quattro Cavalieri dell’area dialettale della nostra poesia. Poesia dalle radici popolari e contadine, poesia che, più che raccontare, dà l’impressione di essere raccontata dai personaggi, dai fatti, dalle cose che la animano. Contadini di tutto il mondo, unitevi! Contadini erano i”Fratelli Cervi”, sette fratelli contadini, che il 28 dicembre del 1943 furono fucilati dai fascisti a Reggio Emilia, mentre il loro padre morì di dolore: “Nella stessa fattoria/ abitavano in comune/ padre, madre, figli e nuore/ senza servi né padrone”. Cesare Zavattini scrisse una nota per questa “canzuna”.
Sulla spettacolarità della poesia di Ignazio Buttitta scrisse Roberto Roversi: “l’attore è sempre in scena, adattando la voce, fingendosi diverso: ma è lui, lì, questo Ignazio con la sua bella faccia, rumorosa e sapiente. Egli è bene Ignazio nel Buttitta”. Un “bene” che si poteva cogliere in ogni lampo dello sguardo, in ogni trasalimento degli occhi, in ogni guizzo delle labbra, in ogni contrazione della faccia: poeta cantatore, sapiente e sornione.
Lui e il comunismo erano una cosa sola, ma non il comunismo comunismo ma il suo comunismo. Conosceva tutti i capi del partito, ne era amico, ma restava sempre un solitario. Qualche volta si spingeva fino a Mosca e anche qui ne approfittava per recitare, con il suo grande, inseparabile amico, più che compagno, Evghenij Solonovic, rimasto adesso il più grande traduttore della poesia italiana, non solamente in Russia.
Ma era un comunista particolare, la sua voce più che di protesta era di lamento. “lamento per la morte di Turiddu Carnevale” e sempre altri lamenti: per le ruberie dei saracini, per le tragedie dell’emigrazione, per l’occupazione delle terre, per la povertà, per il pianto delle madri, per l’ingiustizia, per la condizione umana alla quale tuttavia non perdona l’indifferenza, il disimpegno: “tua è la curpa, che fai l’indifferenti”.
Non fu un tribuno che predicava odio, lotta di classe, barricate, sangue. Buttitta arrivò a scrivere di avere incontrato un giorno Gesù (“’ncontravu ‘u Signuru pì strada”) e di essersi reso conto che anche lui era un povero innocente (“comu unu ‘nnuccenti, c’acchiana o patibulu”). La sua umanità travalicava ogni cosa e per questo poteva anche fantasticare, dalla sua terrazza dell’Aspra, di parlare con Santa Rosalia, sempre con la stessa domanda: perché tanto dolore per un genere umano perduto, mentre invece i pesci danzano lieti nel mare?
(…) L’orfanità, ossia la condizione principale di Ignazio, fratello, ancor prima che compagno, del mondo. Al di là dei sogni infranti dell’ideologia, la poesia di Buttitta è pervasa da un profondo senso di religiosità che, laica per quanto possa essere, riconduce pur sempre ad una sfera di intima partecipazione a quei valori che fanno della parola l’annuncio di un mondo di pace. Il sociale, nella sua poesia, non passa mai dalla retorica, ma ha radici nella sostanza di un’ispirazione che va oltre le disillusioni. Non dimentichiamo che sono gli anni in cui dalla Sicilia, da Partinico in particolare, si leva la denuncia di Danilo Dolci.
I suoi discorsi politici sono invettive che pretendono di risalire fino alle orecchie dei soldati vietnamiti che combattono contro gli americani per difendere le idee di un popolo che è tutti i popoli, che non può essere diviso in regione, in aree geografiche, perché ovunque alta è la missione, in cui si crede, delle bandiere rosse. In Sicilia erano gli anni dell’occupazione delle terre, delle dimostrazioni contadine che avevano avuto il loro lutto storico nell’agguato di Portella della Ginestra, erano gli anni del Belice, degli ultimi sussulti del mondo degli zolfatari, dell’emigrazione.
Il mondo aveva avuto il monito dei carri armati sovietici, delle fucilazioni dei deportati e Buttitta ne era rimasto di gelo: aveva imparato che il comunismo non è tutto uguale, c’era quello dei poveri, come il suo, e quello dei potenti.
(…) Un popolo, aveva cantato, mettetelo in catene, spogliatelo, levategli il letto, la tavola, è sempre libero: diventa povero e servo quando le parole non figliano parole, quando gli è vietato di fare uso della lingua, quando è oppresso. Direbbe Ezra Pound: “che la libertà di parole non è niente/ se non si può parlare alla radio”.
Ignazio, nel tumulto di quegli anni, ebbe chiara la visione di ciò che accadeva e non attese nuove stagioni, anni di riflessione, per ripiegarsi su sé stesso, sull’onestà della sua poesia, del suo pensiero, dei suoi ideali sociali, per continuare sulla sua strada con la coscienza del poeta che era. Poeta, dunque, privilegiato con quella sua voce che dava in prestito ai braccianti della Sciara. In Rancuri, del 1970, arriva al massimo della sincerità. Per la sua condizione è un po’ come i signori, non gli manca niente, non desidera niente: però non è un padrone, non ha contadini a lui sottoposti, non ha nulla, lui, da farsi perdonare, per farsi odiare, ed elenca tutte le ragioni del rancore contadino al quale altro non può offrire che la sua partecipazione, il suo verbo di poeta che, pur nell’aria di tempesta, tra i marosi che avvampano gli scogli e il cielo che si avvampa, ha una bella casa in faccia al mare e se ne sta lì, amante della pace e con la vista di Palermo come la tenesse tra le braccia, con le montagne sulla testa e con gli uccelli che passano e salutano.
Più volte Leonardo Sciascia, di fronte ai libri di Buttitta, si era trovato a fare il nome di Neruda, ritenendo anzi che “una poesia come U rancuri –verità di fronte a se stesso e quindi contro se stesso- Neruda non l’ha mai scritta, non la scriverà”. Analogo un giudizio di Pasolini, più volte ripreso, che esageratamente, almeno credo, affermava essere “Neruda un cattivo poeta, mentre quest’umile uomo di Bagheria, sentimentale, estroverso, ingenuo, tormentato –secondo lo schema della poesia popolare del malnato- da una mancanza di amore materno che lo ha reso orfano e ossesso- è quello che si dice un buon poeta”. E’ chiaro che l’esagerazione la attribuisco al giudizio negativo su Neruda, mentre invece perfetta, incisiva è la riflessione sul bagherese, con quella chiusa finale che passa, dall’analisi psicologica, all’affresco cromatico della figura del poeta, colta in “una vampa guttusiana che affolla di pugni chiusi e vessilli le sue poesie”.
(…) Ora che Otello, con questa nuova iniziativa editoriale, ce ne rinfresca la memoria, non possiamo che esserne lieti e grati: a lui e all’editore. Un ritorno di Ignazio è sempre il ritorno della poesia, utilissimo soprattutto in un periodo di così discutibili regimi, dove tanti echi si perdono e persino l’uso della buona lingua va a ramengo.
Buttitta è il poeta della lingua siciliana, col privilegio di averla fatta amare da tutti, questa sua lingua, non già dialetto, ma radice madre di quel dire colto che in una sola parola sintetizza ed evoca pagine di storia. Stratificazioni di storia in una parola siciliana.
Va detto che, non solo per adattare il verso alla musica, talvolta Profazio rivede qualcosa dell’originale delle poesie ma non si tratta di incursioni, di stravolgimenti. Le note hanno le loro esigenze e si sa che il verso è stato sempre, in caso di necessità, adattato alle esigenze della nuova metrica.
Ora ascoltiamo il compact e leggiamo a parte i testi delle poesie che costituiscono il repertorio da Otello Profazio estrapolato. Avremo conferma di quanto abbiamo ripetuto: a prescindere dal genere cui si affida, dalla forma con cui viene proposta, la poesia di Ignazio è grande poesia.
il CD
1. Lu me’ paisi 1:55
2. La mafia 2:44
3. Lu trenu di lu suli 7:43
4. Amuri e dinaru 2:07
5. I Pirati 3:11
6. Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali 4:25
7. La scala 2:11
8. L’amuri non è ficu 2:36
9. Tu non ci sì 3:42
10. Portella della ginestra 8:32
11. Mafia e parrini 3:30
12. Che lasci quando muori 2:20
13. Tua è la colpa 2:49
14. Amici importanti 2:09
15. Strade e paesi 3:01
16. La tristezza 1:49
17. Io faccio il poeta (Discorso ai Feudatari) 7:41
18. Gli uomini di domani 1:32
19. Signuri 2:41
20. Poeta impegnato 1:41
21. Lingua e dialetto 1:19
durata totale: 70:30
I cartelloni da cantastorie per Turiddu Carnevali e Il treno del sole di V. Astuto
Profazio con Buttitta
Un'operazione di sintesi che riempie un vuoto e ci regala un connubio felice in 21 brani che raccontano l'universo poetico di Buttitta che avrebbe voluto cantare i suoi versi come scrisse nell'introduzione a La paglia bruciata: "La mia vita vorrei scriverla cantando; ma ho la chitarra scordata e la voce catarrosa". E allora ci pensa Profazio a far risaltare i versi del suo amico, sia nelle canzoni di più alto impegno civile che in quelle più introspettive.
Michele Fumagallo, Il manifesto
E' la straordinaria vicenda, artistica e umana assieme, di Otello Profazio, altra "biblioteca vivente" di sapere popolare, vibrantissimo interprete del canzoniere poetico di Ignazio Buttitta (...) quella voce vibrante, arcaica e modernissima, che ha saputo incardinare su sei corde versi di sdegno e di pietà per il suo popolo, troppo spesso schiavo della sua personale Gomorra: l'indifferenza atavica verso i soprusi Guido Festinese, Alias
Calabrese di nascita, siciliano di lingua, di cuore e d'arte, Profazio ha coltivato un'amicizia e una collaborazione unica nei risultati con il più grande poeta siculo del nostro tempo, quell'Ignazio Buttitta che ha cantato con passione la sofferenza, la gioia, i sentimenti vividi della nostra gente e la cui opera oggi soffre l'ingiuria di esecuzioni sommarie e arbitrarie, magari con traduzioni che si spacciano per artistiche. (...) Nel presentare "Il Poeta e il Cantastorie", ha cantato, raccontato, affabulato le più belle "ballate" di Buttitta, intercalandole con altre, sue o di tradizione. Spettacolo di grande gusto e calibratura, serrato e senza sbavature Antonio Giordano, La Sicilia
Un'opportunità da non perdere per ritrovare o per scoprire l'opera di un grande poeta del nostro tempo, la forza evocativa dei suoi versi che non hanno mai perso di attualità Claudio Piccoli. Il cantastorie