Maurizio Agamennone
Storie di Piero
Musica, cultura e società nelle imprese di Piero Farulli
Prefazione di Sergio Cofferati
2022, € 20
Formato 15x21, pp. 268
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Piero Farulli è stato per trenta anni “la viola” del Quartetto Italiano, tra gli ensemble cameristici più amati nel secondo Novecento, la cui cifra interpretativa costituisce ancora un modello prestigiosissimo. Ma è stato anche un grande didatta e formidabile organizzatore. Le sue multiformi attività possono essere intese come l’opera di un vero “leader” nelle politiche della formazione e nelle pratiche della musica, promosse e realizzate con una tenacia e determinazione sorprendenti e, spesso, irresistibili.
La Scuola di Musica di Fiesole e l’Orchestra Giovanile Italiana sono tra le sue imprese più note: per decenni hanno attratto e attraggono migliaia di musicisti, appassionati e “amateurs”, bambini giocosi e anziani emozionati, comuni cittadini che hanno praticato la musica come opportunità per una felice crescita emozionale e intellettuale. A questi si sono aggiunti numerosi scienziati, pedagogisti, musicologi, critici musicali e giornalisti, artisti, amministratori e politici, che hanno osservato e valutato attentamente le sue imprese per ricavarne un possibile “exemplum”, al fine di estendere la pratica e la cultura musicale a tutti, nella scuola, nello spettacolo dal vivo, nella cultura condivisa, per una “cittadinanza” veramente matura, democratica ed egualitaria, coerentemente con il motto proposto da Piero per definire il suo grande e ambizioso progetto: “la musica per tutti”. Pure, la sua opera ha suscitato resistenze, critiche, sorda indifferenza e aperta ostilità che, non raramente, sono risultate prevalenti rispetto ad alcuni suoi obiettivi.
Questo volume prova a raccontare le storie di Piero, le sue lotte, i suoi successi e le sue sconfitte, la rete estesa delle sue relazioni, le sue ricorrenti e martellanti “lamentationes”, le storie dei suoi allievi e collaboratori, e gli scenari sociali e culturali in cui ha condotto coraggiosamente le sue battaglie.
L'introduzione di Maurizio Agamennone
Ho frequentato poco Piero Farulli. L’ho conosciuto personalmente allorché seguivo le lezioni e i tirocini previsti dal primo Corso per operatori musicali promosso dal benemerito Centro di ricerca e sperimentazione per la didattica musicale e ospitato alla Torraccia di San Domenico di Fiesole, nel 1985 e 1986: oltre Farulli, come conduttori e docenti, c’erano Mario Sperenzi, Fiorella Cappelli, Sergio Miceli, Gisella Belgeri e importanti direttori e amministratori di teatri, orchestre e scuole di musica; nella mia classe, alcuni compagni di corso sarebbero diventati direttori e manager di istituzioni e imprese musicali prestigiose. A Fiesole erano stati avviati da appena quattro anni i Corsi di qualificazione professionale per orchestra, ed era da pochissimo tempo attiva l’Orchestra Giovanile Italiana (OGI), che si affiancava alla giovanile europea (allora ECYO, poi EUYO): qualche mio compagno di conservatorio mi metteva a parte delle “mirabilia” che in quell’organismo si potevano sperimentare e condividere, sia in fila, con prime parti di grande esperienza (ricordo bene le arcate con cui i giovani fiesolani cercavano di dare slancio e leggerezza ai movimenti veloci della Settima di Beethoven; più consueta mi parve la soluzione adottata per rendere il ritmo dattilico dell’Allegretto: una arcata in giù e due in su), sia in gruppi più piccoli, con celebri cameristi: ascoltavo con molto interesse quelle testimonianze, ma anche con qualche rammarico, poiché cominciavo a pensare che non avrei mai fatto il professore d’orchestra. Successivamente, nell’agosto 1989, ero a Siena in Chigiana, per allestire insieme con Diego Carpitella e gli amici e colleghi Serena Facci, Francesco Giannattasio e Giovanni Giuriati, il VI European Seminar in Ethnomusicology (ESEM), cui parteciparono Simha Arom, John Blacking, Igor Bogdanov, Anna Czekanowska, Izalij Zemtsovsky e molti altri studiosi; in quella occasione incontrai ancora Farulli, proprio nella sede della Chigiana: ancora giovanile con la sua gran testa leonina, nonostante i quasi settanta anni, assai pervasivo nelle relazioni prossemiche – davvero il bel “Pierone” delle memorie e relazioni più dirette - e curioso osservatore dallo sguardo penetrante (radiografico); in quei giorni, tra gli altri impegni, era alle prese con certe momentanee difficoltà che affliggevano il Quartetto Karalis, costituito da giovani strumentisti che si erano formati alla scuola cagliaritana di Renato Giangrandi, fiorentino e compagno di studi di Piero nella classe di violino tenuta da Gioacchino Maglioni, che proprio nel capoluogo sardo si sarebbe radicato felicemente come autorevole didatta.
Quindi, come musicologo interessato ai processi di formazione dei musicisti e come professore di discipline musicologiche in conservatorio, ho continuato a seguire le sue imprese e ho avuto modo di verificare l’efficacia di alcune soluzioni sperimentate a Fiesole e dintorni, ma anche i mugugni e le diffidenze che certi successi suscitavano altrove. Poi, quando sono stato chiamato presso l’ateneo fiorentino, nel novembre 2002, ho potuto valutare più da vicino come alcune soluzioni appena intuite negli anni Sessanta/Settanta/Ottanta del secolo scorso si fossero largamente consolidate, nei decenni successivi, diventando prassi ordinaria nella vita culturale e musicale della città, per fasce estese della cittadinanza, e come le attività della Scuola di musica di Fiesole e tutto “l’indotto farulliano” contribuissero ormai a orientare anche alcuni aspetti della cerimonialità e sociabilità cittadina e regionale. E pure ho avuto l’opportunità di assistere, occasionalmente e a distanza di sicurezza, a qualcuna delle sue proverbiali “sfuriate”. Così, dopo la sua scomparsa, nel 2012, ho potuto ancora verificare quanto larga fosse l’eco delle sue imprese, e intensa l’emozione per la perdita.
Perciò, quando Adriana Verchiani mi ha interpellato, nel 2019, per verificare se avessi interesse a realizzare una nuova monografia su Piero Farulli, nel programma per il centenario della nascita del Maestro (1920-2020), ho accettato volentieri, pur consapevole che mi sarei messo a “camminare sulle uova”, considerata l’esuberante personalità dell’artista che sarebbe diventato oggetto di un nuovo studio, e l’intensità dei sentimenti che la stessa persona ha suscitato, nei lungi decenni della sua vicenda umana. Ma mi è parsa una “sfida” interessante - e da accettare, senz’altro -, in una prospettiva musicologica e antropologica, considerati i tanti temi e processi che sarebbe stato possibile rilevare e valutare:
- il dialogo, gli scambi e i conflitti all’interno di piccoli gruppi molto specializzati;
- i rapporti tra individualità spiccate e gruppi più estesi;
- le relazioni tra istituzioni che si incontrano e si trovano a interagire intorno a programmi specifici, con processi operativi distinti;
- le amicizie e i legami di lunga durata, nelle biografie individuali, che resistono nel tempo e riemergono prepotentemente allorché ci si ritrova intorno a un possibile “fare” da costruire “ex novo”;
- gli avvicendamenti generazionali all’interno di comunità tendenzialmente conservative, ma che si trovano a poter accogliere istanze innovative, modificando o abbandonando prassi consolidate;
- le “gerarchie” di merito e competenze che si formano e ricompongono nelle arti performative, attraverso filiazioni e genealogie di maestri e allievi, che proprio nella musica trovano una conferma esplicita, in una occorrenza tenace anche presso culture assai diverse e lontane da quella europea e occidental;
- gli scambi di saperi, esperienze ed emozioni tra personalità esuberant;
- le scelte di “repertorio” intorno a un inventario di testi e tradizioni esecutive formidabile, nella tradizione cólta europea.
Sotto traccia, nella scrittura, è circolata una risonanza costante: come si intende, quasi tutti i processi e tratti indicati nella lista precedente possono essere individuati e descritti nell’analisi di campi assai diversi del “sapere” e del “fare”, anche molto lontani da testi, pratiche, comportamenti e tradizioni musicali, ma nelle storie di cui ci si occupa in questo volume – ed è stato sorprendente anche per me, riconoscerlo, mentre mettevo insieme quella lista - il vettore principale che unisce e muove quei tratti e processi, altrimenti generali e pervasivi, è da individuarsi soprattutto nelle “grazie” e “malìe” della musica, appunto. A questo “pedale” sotterraneo si è aggiunta pure una fascinazione, anch’essa persistente, per l’influenza e il retaggio che individualità prestigiose riescono a consegnare al loro tempo e alle generazioni successive, contribuendo a trasformare intuizioni solitarie o di piccolo gruppo, in fatti e processi sociali, nell’emozione travolgente che si prova allorché si riesce a produrre piccoli nuclei di bellezza con la condivisione dell’esperienza, il “fare insieme”, anche da parte di chi non penserà alla musica - mai e poi mai! - come una professione.
È quanto ho cercato di fare, mettendo insieme queste storie di Piero, nella prudenza e distanza che si chiedono a un “osservatore esterno”, senza pensare di costruire un racconto celebrativo ma con molta stima e affetto.
La vicenda umana e le imprese di Piero Farulli[1] non costituiscono un mistero, almeno nei tratti generali: peraltro, sono state ampiamente rappresentate e raccontate dal Maestro, in una lunga, complessa e disinvolta auto-narrazione, diffusa in occasioni e contesti multiformi (dai discorsi pubblici proposti “in voce”, fino a numerosi e continui interventi - spesso entusiasti, ma, non raramente, anche molto severi - sulla carta stampata e nel sistema mediale), disseminata in una vita lunga e densa; pure, sono state esplorate e documentate da vere e proprie biografie in opere editoriali e saggi diversi[2]. Piena di esperienze singolari e aspirazioni utopiche, segnata da relazioni assai strette con personalità straordinarie appartenenti a campi assai diversi del “sapere” e del “fare”, può essere descritta come la vita di un costruttore che ha lanciato e vinto sfide formidabili, scartando bruscamente da itinerari professionali altrimenti ritenuti sicuri, affrontando resistenze e insuccessi ripetuti e resistendo a drammatiche svolte della sorte, contenendo e recuperando arretramenti imprevisti da posizioni ritenute ormai consolidate, adattando e perfezionando, nel “fare”, intuizioni originarie maturate in solitudine ma anche nel confronto e dialogo con colleghi, amici, scienziati, studiosi e operatori diversi, conosciuti “strada facendo”. Uno scopritore e plasmatore di talenti che ha alimentato una estesa filiazione di allievi qualificati e ampiamente itineranti lungo le vie della musica, sperimentando programmi ambiziosi e innovativi per la formazione dei musicisti, destinati a diventare modelli ampiamente imitati: sicuramente è stato un didatta molto severo ed esigente, lungimirante, spietato certe volte, consapevole della densa stratificazione che connota la storia musicale europea ed occidentale, ma, altresì, testimone di istanze stilistiche e consuetudini locali e, perciò, protagonista nella definizione di un possibile stile “italiano” per l’approccio ad autori e testi della tradizione cólta europea. Pure, ha saputo allestire progressivamente uno scenario pedagogico “amichevole” in cui tutti - donne e uomini, bambini e giovani, adulti e anziani - potessero sperimentare la pratica musicale come esperienza sociale diffusa, per una fruizione estetica sofisticata e nella produzione diretta di “piccole” ed emozionanti esperienze di bellezza.
Piero Farulli è stato un performer e un artista autorevole e celebre, come tanti altri nel secondo Novecento e a cavallo di millennio, ma, diversamente da molti di questi, nelle sue diverse azioni - come artista, intellettuale, cittadino della Repubblica italiana e dell’Unione europea, e anche “cittadino del mondo” – Farulli è stato uno strumentista, un musicista che, orgoglioso e animoso, “ha preso la parola”: è intervenuto vivacemente all’interno di scenari molteplici, con la sua voce tonante, ma anche con la penna, nella corrispondenza con interlocutori diversi – dagli scienziati ai musicisti, dai musicologi ai critici, dagli educatori agli amministratori locali, dalle autorità regionali alle più alte cariche della Repubblica - e nella redazione di testi multiformi, destinati a descrivere e sostenere i suoi progetti, a qualificare la propria presenza in organismi diversi, a commentare alcune vicende della nostra storia recente, a suscitare e animare il confronto sulle condizioni della cultura musicale nella società italiana, a sollecitare l’approssimazione più rapida possibile delle cose musicali italiane alle migliori esperienze europee e internazionali[3]. Ma questa capacità di impegno e testimonianza “verbale” non è affatto frequente e spontanea tra i musicisti, e forse costituisce uno dei tratti più originali e interessanti dell’opera del Maestro: i musicisti - come i danzatori e gli attori, e come gli atleti e gli sportivi, in fondo - sono performer “totali”, si esprimono soprattutto, se non esclusivamente, attraverso un “fare” specifico, molto sofisticato e specializzato, che assorbe quasi completamente la creatività e l’immaginazione e spesso esaurisce le energie psico-fisiche, non lasciando ampi spazi di ulteriore impegno e presenza, come è nella aneddotica che riguarda una certa tendenza alla “afasìa” o al disinteresse per le cose del mondo, che connota il racconto delle vite di non pochi artisti, e anche atleti e sportivi. L’orizzonte più “nobile”, forse, di questo suo impegno costante – nella ideazione e comunicazione, nella persuasione, progettazione e organizzazione – si può rilevare senz’altro nella aspirazione a emancipare la musica cólta da una tradizionale condizione ancillare e marginale - come è nella storia culturale italiana, almeno negli due ultimi secoli, con qualche passo avanti soltanto nei decenni repubblicani del “welfare” diffuso e partecipato -, limitata a occasionali circostanze della sociabilità di ceti privilegiati, affidata a pochi e riservati specialisti, titolari di un “sapere” e un “fare” percepiti quasi come “esoterici”, comunque lontani dalla sensibilità e dalle competenze delle “persone comuni”: si tratta di un impegno generoso e durevole, che ambisce ad avvicinare la musica cólta alla vita e al fare sociale di tutti, non solo dei musicisti professionali e delle persone altolocate o benestanti, che ritiene di considerare la musica come una componente essenziale della cultura, la pratica musicale individuale e di gruppo come un vettore privilegiato nella formazione di cittadini consapevoli, autonomi e liberi, e pure felici, per quanto è possibile. E forse, proprio perché la più ambiziosa e nobile, e non affidabile alle sole energie, all’entusiasmo e alla tenacia dei professionisti della musica, questa aspirazione è ancora tutta da realizzare, al di fuori delle esperienze messe in atto direttamente dal Maestro, oltre il raggio d’azione delle sue imprese fiorentine, fiesolane, pisane e toscane.
Perciò, Farulli ha pure suscitato non poche antipatie, convergenti nelle accuse di essere un accentratore, privilegiare sistematicamente i suoi allievi, considerare le sue diverse “creature” sopra qualsiasi altra istanza istituzionale, drenare risorse dovunque per sostenere le sue imprese a scapito di altre: probabilmente, alcune di queste critiche sono state alimentate da una certa “gelosia” o “invidia” per i suoi successi e l’estesa rete di alleanze e solidarietà che riusciva a costruire, ma non si può escludere con assoluta sicurezza che alcuni tratti della sua personalità – la forte determinazione, una certa ruvidezza e velocità nelle relazioni, l’orgogliosa consapevolezza della qualità interna ai propri progetti – abbiano potuto produrre alcuni esiti di emarginazione ed arretramento per progetti e persone non necessariamente modesti e incongrui.
Quindi, Piero Farulli ha lasciato una eredità stratificata e multiforme ai suoi colleghi, allievi, compagni di avventure, sodàli occasionali o durevoli: un retaggio incombente e impegnativo, che richiede agli “eredi” capacità e concretezza gestionali unite - possibilmente, anche se non dipende dal solo impegno personale - a una sensibilità “visionaria” che sappia continuare a vedere aldilà dell’esistente, oltre a organizzare e conservare tenacemente il presente. Si tratta di riuscire a “stare sul pezzo”, come si dice per intendere una capacità di applicazione costante, che non si distrae e non si smarrisce o esaurisce in vani discorsi - una prospettiva che richiede tenacia, continuità, resistenza e competenza organizzativa -, ma anche di riuscire a “guardare oltre l’orizzonte”, di prefigurare quello che ancora non c’è, e di trasformarlo, nel tempo, in opere e fatti concreti e condivisibili. Quest’ultima, come si intende, è una prospettiva assai avventurosa e incerta, rischiosa e ingrata: richiede un’intelligenza e percezioni sofisticate e mobili che sembrano appartenere soprattutto ai pionieri, agli esploratori, ai fondatori e costruttori, curiosi e irrequieti, impegnati nell’attraversamento di spazi ignoti, a seguire piste nuove, sperimentare procedure e metodi inusuali, forzare coraggiosamente limiti e barriere imposti dalle consuetudini. Nelle vicende umane, ai “pionieri” e ai “fondatori” segue generalmente l’opera dei “coloni”, degli amministratori e “governatori” che si insediano sul terreno esplorato e fecondato da altri: l’opera dei “coloni”- stanziali, assai meno mobili ed euforici - è anch’essa impegnativa, senz’altro, ma assai meno avventurosa ed entusiasmante, e forse più rischiosa, non solo sul piano operativo ma anche per le implicazioni emozionali che inducono gli eredi - i “coloni” e i “governatori” della metafora proposta dianzi - a misurarsi costantemente con modelli alti e incombenti, a confrontarsi con le memorie e i lasciti di grandi e prestigiose personalità, a tutelare quanto costruito dai “fondatori”, nell’obbligo morale e nell’impegno sociale di riuscire a mantenere integro e inalterato il patrimonio ereditato.
[1] Piero Farulli (Pietro, all’anagrafe) è nato a Firenze il 13 gennaio 1920, ed è morto il 2 settembre 2012, presso la casa di campagna della moglie Adriana Verchiani, nella contrada rurale denominata “Sussineta di Là”, in Comune di Londa, nel Mugello.
[2] Il riferimento primario, senz’altro, è il volume Il suono dell’utopia (Gasponi 1999): con il sottotitolo eloquente Piero Farulli dal Quartetto italiano alla Scuola di musica di Fiesole, costituisce una lunga autobiografia, condotta in prima persona dal Maestro, dalla formazione iniziale alle attività più rilevanti della Scuola di musica di Fiesole, fino alle soglie del nuovo millennio; in più, il volume propone una accurata discografia del Maestro, come viola del Quartetto Italiano e come strumentista in altre formazioni; pure, presenta una affettuosa prefazione di Mario Luzi; il volume è corredato da una brevissima introduzione dell’autore dell’opera, Alfredo Gasponi, musicologo e a lungo critico musicale del quotidiano romano “Il Messaggero”; in effetti, la cura e la realizzazione non devono essere state proprio agevoli, considerati il carattere orgoglioso e l’animosità del protagonista, e la necessità di ben rappresentare il suo punto di vista e di ascolto, spesso assai personale; Gasponi, tuttavia, ci tiene a sottolineare la bonomìa, la pazienza e il rispetto di Farulli, pur con solo “qualche espressione un po’ accorata” (Gasponi 1999a: 11). A questa, imponente ed emozionante, si affianca ancora una più breve auto-biografia, anch’essa risalente alla fine del secolo scorso, proposta come “Lectio magistralis” dallo stesso Farulli nel ciclo “I venerdì del direttore”, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa il 30 aprile 1999 (Farulli, Piero 1999); questo programma pisano ospitava annualmente personalità importanti a tenere conferenze su un tema specifico: tra gli altri invitati, quattro anni dopo Farulli, il 16 maggio 2003, il nuovo direttore della Normale Salvatore Settis ospitò Umberto Eco a fornire le sue “Riflessioni sulla traduzione”; ancora quattro anni dopo, il 19 gennaio 2007, Franco Battiato fu invitato a tenere la sua relazione su “Il cinema, una scelta linguistica”.
[3] Il programma promosso dal Dipartimento SAGAS dell’ateneo fiorentino, avviato in occasione del centenario della nascita del Maestro, oltre questo volume - storie di Piero - ne comprende anche un altro - scritti di Piero - curato da Gregorio Moppi, in cui sono pubblicati numerosi testi elaborati e presentati “in voce” dal Maestro nelle occasioni multiformi del suo impegno intellettuale, artistico, sindacale, amministrativo e, anche, politico.
Maurizio Agamennone insegna Etnomusicologia presso l’Università di Firenze. Per Squilibri ha pubblicato Varco le soglie e vedo. Canto e devozioni confraternali nel Cilento antico, Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di D. Carpitella ed E. De Martino (1959, 1960), Musica e tradizione orale in Salento. Le registrazioni di A. Lomax e D. Carpitella (1954), Viaggiando, per onde su onde. Il viaggio di conoscenza, la radiofonia e le tradizioni musicali nell'Italia del dopoguerra (1945-1960) e, assieme a V. Lombardi, Musiche tradizionali del Molise. Le registrazioni di D. Carpitella e A. M. Cirese (1954)
Il libro si avvale di tre percorsi genialmente identificati dall'autore (...) con un'intensità di scrittura che non lascia vuoti e che travolge il lettore come se fosse un libro di avventure (...) Si deve perciò essere grati all'autore di Storie di Piero Furio Colombo, Il fatto quotidiano
Agamennone ha ripercorso e contestualizzato con puntiglio queste ed altre vicende riconducibili all'esistenza di un protagonista assoluto della musica nazionale (...) per il quale a importare più di tutto era la dimensione sociale del fare musica Piercarlo Poggio, Blow Up
un volume ricco di note, riferimenti e testimonianze raccolte con cura e pazienza (...) lo spirito di osservazione e la felice penna di Maurizio Agamennone hanno catturato in pieno il carattere di Piero Farulli, per quanto fosse difficile e pieno di sfaccettature Cristina Giuntini, SoloLibri
Le pratiche collettive della musica, collante di comunità questa volta nel senso più laico, democratico ed egualitario che possiamo attribuire alla parola, sono state una delle benefiche ossessioni di Piero Farulli (...) Maurizio Agamennone ci racconta il tutto, con affondi saggistici anche nell'Estate fiesolana Guido Festinese, Alias-Il manifesto