Otello Profazio
La storia
Ballata consolatoria del popolo rosso e altre storie
2018, € 18 formato 14x14, 64 pp. e 15 foto a colori e in b/n
A sessantacinque anni dall’esordio, Otello Profazio allestisce, in un nuovo disco di inediti, una narrazione originale e imprevedibile dove, in una prospettiva risolutamente impolitica, un silenzio sordo ad ogni tentazione ideologica si scioglie in sfregio, sberleffo e invettiva nel dispiegarsi di un’amara ironia.
Inarrivabile interprete delle tante anime del meridione, il cantore di troppe disillusioni – Premio Tenco 2016- si pone ancora una volta al confine tra due mondi, tradizione e modernità, per prendere dall’uno motivi e suggestioni da far rivivere nell’altro, nel personalissimo equilibrio tematico ed espressivo che da sempre caratterizza la sua rivisitazione dei patrimoni popolari. Al suo ingegno, affinato in anni e anni di palestra sul campo, si devono in particolare quelle straordinarie doti mimetiche e ricettive per cui si pone in sintonia con gli umori più profondi delle comunità alle quali si rapporta, dando corpo anche alle loro istanze più laceranti.
Tra autocitazioni e rimandi, ammiccamenti e interventi in voce, tra un brano e l’altro la storia, annunciata nel titolo, si rivela essere in realtà la sua storia personale, la cui esperienza biografica e artistica sembra scorrere in parallelo alle vicende narrate nei canti.
Con un significativo corredo fotografico e scrtti di Domenico Ferraro e Nicola Scaldaferri
(…) All’inventiva dell’autore, in particolare, si deve l’ineguagliata capacità di farsi interprete delle tante anime del Meridione e al suo ingegno, affilato in anni e anni di palestra sul campo, quelle straordinarie doti mimetiche e ricettive per cui sembra trovarsi sempre in sintonia con gli umori più profondi delle comunità di riferimento: capacità e doti che risaltano in modo particolare in questo suo nuovo disco, in apparenza così diverso da tutti gli altri della sua imponente discografia. In questo lavoro, infatti, sembrerebbe non esserci l’unità tematica che ha caratterizzato tutti i suoi precedenti cimenti discografici e, allo stesso modo, sembra essersi dileguato quel rigore formale che conferiva ulteriore forza alla vicenda di volta in volta narrata. I brani sembrano susseguirsi disordinatamente, quasi si trattasse di un campionario dei diversi registri espressivi di cui Otello ha già dato prova in precedenza ma di volta in volta e separatamente: il tono drammaticamente epico del pezzo d’apertura, la delicata intonazione lirica dei canti d’amore, l’andamento scanzonato e irriverente di gran parti delle canzoni di denuncia, la malìa ipnotica dei canti enumerativi fino all’irruzione improvvisa di altri brani senza un nesso evidente con il resto, come lo strepitoso omaggio che rende a Fabrizio De André con Donna Vicenza che, da solo, vale in ogni caso il prezzo del disco. Un pot-pourri, insomma, di brani di per sé notevoli e all’altezza delle sue cose migliori dove però si ha difficoltà a rinvenire il bandolo della matassa per disporsi a seguire il filo di una narrazione unitaria. E per sovrapprezzo, di tanto in tanto, qualche passaggio meno felice che, alquanto incautamente, ebbi a definire con lui come ‘caduta di stile’: un’espressione che mi è ritornata più volte indietro, a mo’ di sarcastico rimprovero, nei diversi mesi di gestazione di questo progetto. Senza scomporsi più di tanto, Otello si limitò allora a una replica seccamente beffarda (“Caduta di stile? Ma io sono il campione delle cadute di stile!”), meravigliandosi che ancora non avessi capito quale fosse l’innesco della sua ispirazione malgrado anni e anni di reciproca frequentazione e i non pochi libri e cd realizzati in questi anni[1]. Mi secca ammetterlo ma aveva ragione lui. Quel titolo, in apparenza così poco onorifico, rivendicato orgogliosamente come un merito, si lega ad altre sue dichiarazioni, remote e reiterate negli anni, in cui ha attribuito a se stesso un approccio letteralmente ‘viscerale’ alla musica (“io canto con lo stomaco”[2], “canto quello che mi piace e scrivo quello che sento e quando lo sento”[3]), anche per sottolineare la distanza da altre operazioni che, nel nome di superiori ragioni politiche, mistificavano la natura e gli orientamenti reali delle masse popolari in edificanti bozzetti ridondanti di ogni pietas, virtù ed eroismo: operazioni che, pur avendone lui stesso sottolineato più volte il carattere colto e raffinato nonché l’indubbia maestria musicale, avevano il limite di rappresentarsi il ‘popolo’ come non era né sarebbe mai potuto essere trattandosi comunque di individui in carne ed ossa, con tutto ciò che la corporeità implica, anche quando gridavano al mondo l’arrivo imminente del “sol dell’avvenire”. I contadini di Otello, infatti, non “costituiscono una classe sociale da assumere nell’olimpo della rappresentanza” né in una prospettiva marxista né, tanto meno, anarco-insurrezionalista[4]. Sono espressioni di una variegata umanità accolta con il cuore aperto e le orecchie tese per raccogliere quanto di più intimo e personale avevano da raccontare, con o senza musica, al fine di trascriverne i sussulti e ripercorrere così le pieghe che la storia e, più spesso, la sua assenza ha lasciato sulla superficie delle loro esistenze. Secoli di delusioni e sofferenze, negazioni ed esclusioni che, di generazione in generazione, hanno originato e fortificato un sentimento di distanza da ogni progetto di riscatto e un senso di estraneità a qualsivoglia promessa di cambiamento, accolta sempre con scetticismo e diffidenza soprattutto quando pretendeva di declinarsi in termini collettivi, come soluzione definitiva di problemi percepiti invece come endemici, se non di natura pressoché metafisica. (…) Questi contadini, conosciuti nella piana di Locri o nelle campagne siciliane, ancor più che le innumerevoli e non sempre dichiarate fonti a stampa, costituiscono la prima scaturigine delle invenzioni alla base della proposta artistica di Profazio che ha così fatto proprio “il punto di vista, in sé immodificabile e indifferente, di una classe popolare subalterna, di un popolo, più che sotto-proletario, pre-proletario”[5], riuscendo ogni volta a ricondurne le istanze più recondite e laceranti a sintesi unitarie in una chiave impolitica o, per meglio dire, pre-ideologica. Così è, ad esempio, nel suo album che più di ogni altro si misura con tematiche politiche, L’Italia cantata dal sud, dove la “sintesi storica di un secolo, dai Borboni agli ultimi fatti modernissimi di governo e di mafia, non può essere veramente storia, ma un seguirsi, identico attraverso il tempo, di fatti, dolori, sventure, oppressioni, ribellioni, attese, speranze, momenti del destino, tutti egualmente esterni, dove la storia passa altissima e remota, come una nuvola in un cielo mitologico”[6]. La disillusione nei confronti del nuovo stato unitario determinava così la regressione a miti atemporali come quello del brigante “generoso con i poveri e feroce con i malvagi”, vagheggiando il sogno di una giustizia diversa da quella sperimentata sulla propria pelle prima e dopo l’Unità d’Italia. Un anelito insopprimibile che non preludeva però a un moto di ribellione né, tanto meno, a un disegno politico perché per quei contadini non si dava altro conforto che quella ‘ironia dolorosa’ che, per Profazio, è una delle componenti essenziali dello spirito meridionale, incline, ieri come oggi, a ridere amaramente delle proprie disgrazie, oltre che dell’ineguale distribuzione tra gli uomini di una realtà così universale come il dolore. (…) Avviato come progetto nel 2007, questo nuovo lavoro nelle sue intenzioni doveva per l’appunto configurarsi come “una seconda Italia cantata dal sud ma più meditata e più sofferta”[7] perché composta dopo la caduta di ogni speranza e di ogni ideologia, eretta in quel territorio silente e desolato che qualcuno si è raffigurato come la fine della storia. Lo stupore del vecchio isolano, rispetto a cambiamenti politici che lasciavano inalterata la sua condizione, ha lasciato il posto a un silenzio sordo ad ogni tentazione ma gravido di parole che non possono esprimersi se non sotto forma di sfregio, sberleffo e invettiva. La stessa denuncia ora non ha altre intenzioni che quella di denudare mistificazioni ormai insopportabili, nella consapevolezza che non si diano più possibilità di scampo né vie di fuga. Una situazione di resa incondizionata dove non è più tempo di eroi solitari, con le cui gesta compensare le distorsioni della storia e lenire le ferite del cuore, e neanche di briganti intenti a vendicare torti e a riparare a ingiustizie. Torti e ingiustizie sono parte inamovibile di quel panorama abitato da uomini che sono un grumo inestricabile di passioni ed egoismo perché possano comportarsi diversamente: e su quel terreno sono ricondotte persino le figure dei santi, pure tanto venerate nella devozione popolare, nella personale, quanto irriverente, rivisitazione delle loro agiografie in brani come Oh santo Nicolò. Annodando le fila di un racconto disseminato in tanti album, quasi che costituissero parti di una sola narrazione, Otello può così procedere anche per autocitazioni perché se ieri, a queste latitudini, si “campava d’aria”, oggi può dire “qua si campa/ ed è già tantu”, con il pensiero rivolto a quanti sostengono la costruzione del ponte sullo stretto senza rendersi conto che, nella migliore delle ipotesi, unirebbe solo “il sud sottosviluppato”. Secoli e secoli di storia non sono passati invano. Le scorie si sono sedimentate nella carne delle vittime e ne hanno appesantito il passo, obbligandole a camminare carponi a terra. In questa regressione a uno stadio primordiale riaffiorano, e non potrebbe essere diversamente, sentimenti e stati d’animo ancestrali e, con loro, quegli umori malmostosi rimossi da altre rappresentazioni dei ceti popolari in quanto grevi, ineleganti e ‘qualunquistici’, quando altro non erano che spie di un malessere profondo che andava compreso prima che deflagrasse facendo strame attorno a sé di ogni proiezione in avanti, verso un domani che non si comprende come possa essere diverso dall’oggi. (…) Una forma esasperata di pessimismo, insomma, che non induce però a disperazione proprio per il sapiente dispiegarsi di quell’ironia dolorosa con cui Otello imbandisce la sua tavola, irrora queste amare, amarissime pietanze che sono gli unici resti di una storia ormai trascorsa. Quando lo strazio è all’apice, quando si è sul procinto di precipitare in una vertigine di dolori insormontabili, ecco che ridere di se stessi e del mondo, pur rimanendo in bilico su quello stesso precipizio, è un balsamo potente e irrinunciabile perché capace di attutire ogni sofferenza. Profazio però è tutt’altro che intenzionato a consegnarsi a quel cinismo bieco che pure dovrebbe sortire da questi distillati di vita ed esperienze: ne è prova il pezzo di apertura, La storia. Ballata consolatoria del popolo rosso, in cui rende omaggio ai combattenti di ieri e a quanti con generosità e passione hanno animato ambiziosi disegni di rinascita a vita nuova. A tutti loro, che ad Otello piace raffigurarsi simbolicamente nel nome e nella figura di Pietro Ingrao, è indirizzata questa ballata, su un testo inedito di Ignazio Buttitta, con la struggente esortazione a guardare ancora in avanti, senza avvilirsi troppo per le sconfitte di ieri e di oggi perché, oltre la storia, si distende il tempo: un tempo non più inteso come movimento rettilineo verso una meta ma come durata e accumulo in cui, in linea di principio, tutto potrebbe ancora succedere per cui possono anche continuare “a seminare sull’acqua” e “a predicare al vento”. Una prospettiva che, evidentemente, non sente sua il cantore di tante disillusioni che a questo brano, non a caso, ne affianca un altro, sempre con testo di Buttitta ed altrettanto bello ma di orientamento opposto, invitando i destinatari ultimi di quella predicazione a non prestare ascolto a quanti ritengono possibile un ritorno ai tempi in cui si restituiva la vista ai ciechi e la parola ai muti perché la storia “non cambia ni versu e mancu rima”. [1] Domenico Ferraro, a cura di, Il poeta e il cantastorie. Profazio canta Buttitta, con CD, Squilibri, Roma, 2006; il già citato volume con due CD a cura di Massimo De Pascale e Otello Profazio, L’Italia cantata dal sud, con CD, Squilibri, Roma, 2011. [2] Massimo De Pascale, a cura di, Otello Profazio,cit., p. 79. [3] Così in un dibattito sulla musica popolare promosso da Mario Balvetti sul numero del 12 maggio 1972 di “TV Sorrisi e Canzoni”. [4] Cfr. le colte e interessanti osservazioni di Giuseppe Tripodi nel suo Ritratti di contemporanei. Otello Profazio, “Belfagor”, vol. 67, n. 3, pp. 289-308. [5] Carlo Levi nelle note a corredo del dico L’italia cantata del sud¸ ora nella già citata edizione di Squilibri, pag. 50. [6] Ivi. [7] Massimo De Pascale, Otello Profazio¸ cit., p. 60. 1 La storia. Ballata consolatoria del popolo rosso (3:26) 2 Maghi, streghe e sirene (1:50) 3 Quant’è bella la Calabria (3:36) 4 Il ponte (2:33) 5 Gioiuzza cara (1:10) 6 Lu cori di la donna (1:21) 7 Cori di canna (2:48) 8 Donna Vicenza (2:19) 9 O Santo Nicolò (3:33) 10 La democrazia (2:56) 11 Inno dello Statale (0:48) 12 A frunda (2:23) 13 O pêtri di la via/Donni assassini (2:14) 14 Mi ndi vaju (3:00) 15 Ti saluto bova (2:34) 16 L’America (6:02) 17 L’Australia (2:44) 18 L’orfano (4:10) Chitarra solista Saverio Viglianisi Oboe Salvatore Celona
Da
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Antesignano del folk revival in Italia, inarrivabile interprete delle tante anime del meridione, Premio Tenco 2016, Otello Profazio è autore di brani divenuti ormai dei classici nei repertori della "nuova" musica popolare.
Ci sono uomini-ulivo, nella storia della musica folk italiana, che presidiano un territorio inaridito, sconvolto, e che se anche provate a scalzarli da quella terra violentata continuano ad avvinghiarsi, a lanciare le radici nel profondo. E a produrre l'olio profumato della verità. Sono quelle persone che Erri De Luca e Gianmaria Testa chiamarono “gli invincibili”: non perché trionfino sempre (anzi), ma perché a ogni caduta trovano la forza di rialzarsi con più slancio. Otello Profazio è un uomo-ulivo. I suoi brani dovrebbero essere protetti come patrimonio di tutti, anche da parte di chi nella vita segue principi e pratica convinzioni esattamente opposti a quelli del cantastorie ironico con la chitarra in mano Guido Festinese, Il giornale della musica
Se Profazio andasse in giro con il marchio "patrimonio dell'Umanità UNESCO" stampato in front non ci sarebbe nulla da ridire. E' un archivio vivente, aperto al pubblico senza orari né giorni di chiusura. (...) "La storia", tranne un brano, è costituito di inediti brillanti, tirati fuori dalla riserva senza fondo di cui dispone (...) Dal lirismo all'ironia e all'invettiva, il passo è lungo ma il mestiere e l'estro di Profazio sanno come venirne a capo e rendere coerente un lavoro che ribadisce l'unicità de personaggio Piercarlo Poggio, Blow Up
La storia della musica popolare italiana porta scritto a lettere d'oro il nome di Otello Profazio, cantante, autore, ricercatore, studioso, straordinario interprete della tradizione musicale del Sud d'Italia. Profazio è un monumento della nostra musica, della nostra storia e, non a caso, si intitola "La Storia" il lavoro che viene a presentare a Webnotte di giorno, un album, anzi un "libro-album" realizzato dalla Squilibri, che racconta la magnifica vicenda artistica di Profazio Ernesto Assante, Webnotte de La Repubblica
A monumentalizzare Otello Profazio gli si farebbe un torto, rischiando perfino di depotenziare la caratura artistica, la capacità narrativa esagerata di una personalità memorabile che non è solo archivio della memoria popolare, ma soprattutto cantastorie contemporaneo, che svolge un ruolo di divulgatore, di mediatore interculturale di modelli musicali e poetici, che possiede la grammatica linguistica e musicale del mondo orale, pronto a dare voce nuova ad antiche vicende, più spesso a mettere a fuoco questioni piccole e grandi che vivono nell’oggi. (...) In questo florilegio stilistico non sorprende incrociare “Donna Vicenza”, che altro non è che la deandreana “Bocca di Rosa” portata alla latitudine del “cunto”. È la storia sociale dal basso, è una fetta di Sud che canta ancora nelle corde del mastru cantaturi Otello Profazio Ciro De Rosa, Blogfoolk
La storia del titolo è, ovviamente, la sua (i diciotto brani sono intercalati da fulminei aneddoti personali) ma anche quella della sua terra e della sua gente, quel Sud che Profazio canta da sempre (...) Testi caustici (in alcuni casi di Ignazio Buttitta), inclini allo sberleffo e un'ironia al vetriolo abitano l'album, degno di grande attenzione. Così come la figura di Profazio in toto, nella nostra ottica quanto mai emblematica nel suo traghettarci dalla Calabria (dove è nato) alla Sicilia (che ha molto frequentato anche artisticamente) Alberto Bazzurro, MusicaJazz
Se esiste qualcuno di simile a un mito vivente della canzone popolare del Sud, questo qualcuno si chiama Otello Profazio: ha pubblicato - a più di 80 anni - un bellissimo disco di inediti, e con lui festeggiamo Piero Sorrentino, Zazà Rai Radio3
Profazio riprende voluttuosamente in mano lo scettro di re della musica popolare del Sud -quella delle storie, delle leggende e della poesia cantata più che quella delle pizziche e tammurriate- e con questo cd scodella un profluvio di ballate, serenate, strofe e facezie nuove di zecca. Accanto a capolavori come "Ballata consolatoria del popolo rosso" (che bello risentire cantate le aprole di Buttitta) altri episodi più trascurabili Alessio Lega, Vinile
Il nuovo lavoro di Otello Profazio, cantastorie calabrese dall'importanza a dir poco monumentale. (...) un disco delizioso e pungente, caustico e spiritoso, minimale (voce e chitarra) ma mai monocrode. Tipico del suo stile ma mai ripetitivo: un'opera di una freschezza abbacinante Walter De Stradis, Controsenso Basilicata
Ne La storia, corredato da un bel libro di saggi e foto storiche, Profazio declina in 18 inediti il suo abituale spaziare fra l’oggi delle denunce e l’ieri delle forme musicali della tradizione: e con arguzia beffarda e sarcasmo ecumenico regala veri e propri gioielli (...) Un disco che sorprende per inventiva, acume, freschezza d’ispirazione e verve dialettica Andrea Pedrinelli, Avvenire