Carlo Muratori
Sale
2016, € 15.90, formato 13x13, copertina cartonata, 64 pp. a colori
In offerta con il 5% di sconto
In quel crinale in cui la poesia si converte in musica e la musica si prolunga nella scrittura, Carlo Muratori delinea un potente e delicato affresco sulla propria terra in cui il recupero della memoria storica e folgoranti istantanee sul presente si innestano su sapienti tessiture armoniche, esaltate dal talento straordinario di un musicista capace come pochi di smuovere pensieri ed emozioni.
Pagine di una storia dolentemente immobile e sempre eguale a se stessa si intrecciano così ad altre storie, incontrate per le irte strade che portano dalla piazza del paese alle coste di carrubi e nero d’avola, spettinati dal vento di scirocco.
Impregnati di una memoria salmastra di passati remoti e di attesa per un futuro da benedire col sale, libro e cd raccontano di una Sicilia assunta a metafora di una più generale condizione esistenziale in cui non vorremmo più apparire come figuranti in un presepe, immobili come statue di sale.
Con numerosi, splendidi, compagni di viaggio tra i quali Franco Battiato, Mario Arcari, Daniele Sepe e Peppe Voltarelli.
Ascolta Jancu e finiòsa
Dalle note di commento a Jancu e finiòsa
La memoria della mia infanzia è olfattiva e acustica. Ci sono i profumi e i suoni della strada. Una zingara che arriva tenendo in gabbia un pappagallino che ’nnuvina ‘a vintura attraverso il becco e il bigliettino variopinto
che estrae dalla cassetta. Aviti capiddi ca vi cancju promette un’altra donna con una lunga treccia che le balla sul sedere, che permuta i riccioli e le chiome rasate delle nostre donne con pettini, cerchietti, forcine e altri accessori di bellezza. Arriva un uomo in canottiera e con in testa un fazzoletto annodato ai quattru pizza (angoli) che trasporta una montagna di sale sul cassone del suo carretto, trainato da un maestoso cavallo da tiro. Arriva di mattina presto nelle stagioni calde, con frequenza mensile, credo. Già nel primo pomeriggio avrà venduto tutto il carico alle donne che accorrono numerose e sorridenti ai suoi richiami.
La sua bannjata (bandezzata, tipico urlo dei venditori ambulanti) è inconfondibile e risuona chiara nella mia memoria. Noi picciriddi la ripeteremo ironicamente per anni nei nostri giochi, imitandola senza comprenderne
il significato. Riflettendoci, molti anni dopo, ho compreso come una serie di fenomeni di elisione, metafonesi e altre diavolerie linguistiche, avesse trasformato la frase Jancu e finu è ‘u sali (bianco e fino è il sale) in una geniale sintesi fonetica e melodica Jancu e finiòsaaaaa.
Arrivava dalle vicine saline di Priolo e di Augusta quel sale. Specchi di mare ideali per l’estrazione del luminoso cloruro. Terre basse e invitanti per corteggiare le onde del mare; catturarle dentro le caselle sapientemente impermeabilizzate con l’argilla, per poi essiccarle con il sudore paziente della fronte. Così come fanno le donne con l’estratto di pomodoro, i salinari si alleano con il solleone, ‘u stiddazzu per asciugare ogni superflua goccia d’acqua. I venti di scirocco completeranno l’opera.
Per la verità, in questi luoghi, il Petrolchimico ha completato l’opera, alla sua maniera, definitivamente, tragicamente! Il bianco ha virato sempre più verso il nero e il sale è diventato catrame.
L'introduzione al volume
Le canzoni di questo disco si muovono su due piani di diversa granulometria: sale fino, etereo, impalpabile, sapienziale, spirituale, fatto di luce e di aria, e sale grosso, terrestre, materico, fatto di pietra e terra, impegno sociale e rabbia. Riproduce in parte la molteplice simbologia di questo minerale, prodotto nobile dei quattro elementi primordiali: la terra che ospita l’acqua del mare, dove soffiano i venti di aria calda per asciugare ciò che il fuoco del sole fa esalare. Sale, come piccante, iperbolico e frizzante può essere il carattere siciliano e anche il suo atteggiamento verso il mondo, trafitto com’è da questa perenne luce abbagliante.
Gli antichi greci adoperavano diversi termini per indicare il mare, elemento complesso da decifrare e descrivere: πόντος, per il mare come distesa e viaggio; πέλαγος, vasto e aperto mare; θάλασσα, per un concetto di carattere generale. Ma se dovevano rappresentare il mare come materia allora usavano ἅλς sale.
Questo disco è un frutto di mare, con una sua propria memoria salmastra, di passati remoti, e atteggiamenti prudenti di vigile attesa per un futuro da benedire col sale. Ma è anche la narrazione di una invisibilità del reale, la convinzione della portata esistenziale di tutto ciò che non vediamo, che si nasconde ai nostri occhi.
Mesi e mesi di lavoro occorrono per catturare il sale dalle acque del mare; così presente e disciolto da essere totalmente invisibile. Bisogna scendere nelle viscere della terra per ritrovarlo sotto forma di salgemma, ben occultato da secoli di storia e cataclismi. Sale, dunque, come candida anima segreta di una natura che sfugge ai nostri sensi e che sa rivelarci e raccontarci il vero gusto della vita. Le storie le abbiamo incontrate per le irte trazzere che portano dalla piazza del paese alle coste di carrubi e nero d’avola, spettinati dal vento di scirocco. Le abbiamo prese a morsi per quel senso di fame che mai ci abbandona, di pane nero, olive, mostarda e autenticità; e ce le siamo poi ascoltate e riascoltate, per riscriverle per il nostro tempo, per la gente di ora; le abbiamo nutrite, ingigantite a dismisura, per poi ridurle ai minimi termini, graffiandole con le unghia, scorticandole vive, alleggerendole dei pesi superflui, spogliandole dalle vesti improprie, macinandole dentro il mortaio atavico della vita e del tempo.
Sia che fosse mare o lacrima, amore, gelosia e silenzio, orgoglio e rabbia per l’eterna violenta lotta per chi da sempre vuole dominare il Sud e la sua gente, spacciandolo per rispetto, interesse e tutela. Sui fogli bianchi, allora, è cominciato a precipitare un grato senso di salitudine che a stento si vede, cosparso com’è tra le parole.
Da tempo immemore così recita un adagio siciliano Cu havi chiù sali conza ‘a minestra ossia chi ha più sale prepari, insaporisca, apparecchi, metta insieme una minestra.... Quel sale che è inteso come sapienza, ma anche come pazienza e scienza del vivere, descrive in maniera mirabile la cultura, la civiltà, la sapidità del popolo siciliano. Questa strana generosità di un Sud povero che aiuta ed accoglie i poveri e i disperati di altri Sud del mondo. Proprio quel Sud che ha avuto più sale ma meno minestre, più saperi ma meno poteri, più speranze ma meno certezze. Per comprendere il tutto bisogna concentrarsi sulle piccole cose: osservare due occhi e il sale delle loro lacrime per capire la sofferenza dell’intera razza umana, guardare una stella per comprendere il cielo sconfinato, avere in mano un granello di sale per toccare il più lontano degli oceani.
Il CD
1 Sale la banda 1:00
2 Gloria a mia 4:34
3 Il mare sopra i tetti 4:23
4 D’amor e di pazienza 4:19
5 Jancu e finiósa 3:45
6 Raggi d’argento 3:32
7 Povira patria 4:04
8 Ombra adorata 3:28
9 Mutu 4:14
10 Scurri lu tempu 4:15
11 E sugnu ‘talianu 3:06
12 Solo poche parole 0:47
13 Chi dici nicò 4:17
14 Vinni cu vinni 3:21
15 L’esodo 4:55
Produzione artistica: Stefano Melone
Suonano e cantano:
Carlo Muratori voce e chitarre
Marco Carnemolla basso elettrico e contrabbasso
Quartetto indigeno archi (Christian Bianca violino, Yulia Tsyrkun violino, Matteo Blundo viola, Stefania Cannata violoncello)
Laura Vinciguerra arpa
Enzo Augello batteria
Francesco Bazzano percussioni
Davide Mazzoli percussioni
Giorgio Rizzo bodran
Peppe Di Mauro tamburello
Massimo Genovese mandolino, cavaquino, bouzouki
Carmelo Salemi fiati
Francesco Calì fisarmonica
Daniele Sepe sax
Franco Battiato voce
Mario Arcari fiati
Elisa Nocita voce
Peppe Voltarelli voce
Giulia Immè voce
Carmen Marino voce
La Banda di Melilli diretta da Michele Netti
Dai Cilliri a Sale. Intervista a Muratori di Roberto Sacchi
E' dal 2008 con La Padrona del Giardino che dura il silenzio discografico di Carlo Muratori. Basterebbe per definire l'uscita di Sale un evento. Ma a noi, soprattutto nemmeno a Carlo, piacciono le parole di moda e quindi resistiamo alla tentazione di definire Sale più di un disco.
Un disco che, per buona misura, ha la particolarità di vedere la luce in un periodo storico in cui molti vorrebbero decretare la fine del Cd in favore di altre diavolerie tecnologiche più o meno social, un disco che esce non certo per opportunismo ma per necessità di comunicazione, perché il cantautore siracusano ha sentito l'impellenza di condividere con il pubblico le storie e le sensazioni che caratterizzano i contenuti musicali e poetici di Sale. Un disco che denota la sua volontà di esistere nonostante tutto, ricco di voglia di stupire raccontando.
Iniziando un percorso critico-analitico attraverso Sale con una visione complessiva, quello che più emerge nella sua varietà è la quantità di fonti ispirative differenti, come se il fare canzone di Muratori fosse oltre che un generico obbligo morale- un'esigenza interiore alla quale non si può porre né vincolo né freno. D'altra parte, da sempre, questa è stata ed è una caratteristica precipua di Carlo: lasciarsi condizionare e provocare, stimolare e motivare da storie disparate di cento protagonisti, dalle fantasie colorate, dalle poesie quotidiane. E anche, perché no, dalle pagine della Storia, quella vera, quella con la S maiuscola, della quale la Sicilia è pres-soché infinito serbatoio.
Ed è proprio approfondendo la conoscenza con il cantautore siracusano e le sue canzoni che scopriamo un'altra forma di prestigiosa singolarità: il suo essere versatile ed eclettico, non solo nella teoria se non soprattutto nella prassi, è la premessa culturale d'obbligo per un'attività multiforme che si manifesta in tutti i più svariati aspetti.
Oppure quando, episodio più che raro e prezioso, si confronta con le opere altrui offrendocene una personalissima sofferta interpretazione, oppure ancora quando il confronto avviene con la tradizione, con le note e le parole senza autore che Carlo si assume il rischio di fare proprie non per desiderio di possesso ma per ansia di condivisione e rispetto.
E poi lui è un maestro della mescolanza, come quei geniali professionisti che sanno bilanciare perfettamente i vari componenti di una miscela di caffè. Per esempio: l'esperienza della miscelazione di una banda di paese con i ritmi tutti in levare come li si sarebbe potuti suonare a Kingston, Jamaica.
Oltre alle diverse tematiche affrontate, ogni canzone di "Sale" può essere vissuta come un caso a sé e nello stesso tempo parte integrante di un insieme coeso per il modo unitario in cui acquisisce personalità. Indipendentemente, quindi, dall'essere dialogo privato, presa di coscienza, scambio di opinioni, ricordo d'infanzia e quant'altri temi vogliate aggiungere questo disco è il frutto di un raffinato lavoro di sintesi poetica.
Questo è stato reso possibile da molti fattori, ma soprattutto da una considerazione al tempo stesso iniziale e conclusiva: quella di Carlo Muratori è una figura enciclopedica che ama declinare il linguaggio musicale ai suoi disparati usi: teatro, cinema, arte visiva; e in ognuno di questi ambiti riesce a esprimersi nel modo migliore, lasciando che la poesia della sua musica si esprima libera, differente nella sua unità d'intenti.
Le tue note biografiche ci parlano di una formazione musicale classica, ma i tuoi esordi professionali sembrano indirizzare verso altre forme espressive. Cosa ci puoi raccontare del tuo periodo di crescita artistica universalmente riconosciuto come quello con i Cilliri?
I Cilliri nascono nella seconda metà degli anni settanta a Siracusa. Già a quell’epoca, in questo distretto territoriale del sud-est della Sicilia, la memoria del canto, della musica e della tradizione popolare era molto deteriorata o quasi del tutto inesistente. Elemento rovinoso era stato negli anni cinquanta lo sbarco delle fabbriche petrolchimiche che avevano invaso e deturpato i bellissimi arenili aretusei, decantati dai Corinzi, che vennero a fondare nell’VIII a.C. le colonie greche più incantevoli e influenti della loro stessa madre patria: la baia degli Dei, Megara Hyblaea e Syrakousai che diventerà la capitale della Magna Grecia. Questo processo selvaggio di industrializzazione ebbe come conseguenza la rapida e completa rimozione della memoria agricola, pastorale, marinara della zona costiera. In questo contesto socio-economico, di rapida mutazione genetica, il folk, inteso come genere identitario, di appartenenza ad una tradizione secolare, era percepito come cultura di livello inferiore, volgare, al limite del villano, del cafone. La situazione in tutta la Sicilia, per la verità, non era molto differente. A parte alcune isole culturali arroccate sui Peloritani (sopra Messina) o nell’interno (zone di Enna e Caltanissetta) imbattersi in un musicista o cantore tradizionale era quasi impossibile. A suonare e cantare nelle piazze i repertori “finto” tradizionali, in quegli anni, sono i gruppi folkloristici in costume, in mano ad associazioni dopolavoristiche, a metà fra le parrocchie e le sedi democristiane, in genere composti da musicanti dilettanti, privi di qualsiasi collegamento diretto con la tradizione popolare e del tutto disinteressati allo studio e alla ricerca sul campo. I Cilliri, in qualche modo, rappresentarono la risposta a questo stato di impasse, e implicitamente diventarono un modello di ispirazione per molte delle formazioni folk/revival che da lì a poco si costituiranno in tutta la Sicilia. I musicisti vengono reclutati dall’area colta, classica o pop: violinisti, flautisti, contrabbassisti, batteristi, vocalist… Tutti ottimi musicisti ma che, non possedendo un proprio linguaggio autenticamente popolare, hanno bisogno di una partitura, di un arrangiatore che sappia mediare fra il loro desiderio di fare musica contemporanea, il gusto di un pubblico che si è allontanato già da tempo dagli ascolti folkloristici e ricerca qualcosa di più sofisticato, seppur aderente al genere; che sappia decodificare e ri-arrangiare in maniera corretta i documenti autentici di cultura popolare. Questa, come puoi ben immaginare, è operazione non semplice, che necessita di capacità di scrittura, di certo gusto e intuizione e di una certa conoscenza di repertori e stili. In questo senso ho vissuto e ho dovuto affrontare l’esperienza con I Cilliri di pari passo allo studio della chitarra classica, della composizione, della direzione del coro. La ricerca e lo studio sul campo, insieme allo studio di Segovia, Villa Lobos, Carcassi, Sor o alle sonate di Beethoven e alle fughe di Bach diventavano due facce della stessa medaglia. Sdoganare il folk, emanciparlo dagli ambienti culturalmente depressi e alienanti dove si era cacciato, lontano dalla fonte originale e dai contesti in cui era nato (che non esistevano più), portandolo a nuovi ascolti, rinnovati interessi, obbligava soprattutto me (e chiunque avesse un ruolo simile) a mettere in campo la mia propria credibilità e affidabilità culturale.
Pare che fin da subito tu abbia manifestato una certa propensione a ricoprire vari ruoli più da intellettuale a 360° che non da cantautore puro. Quanto c’è di vero in questa affermazione?
Come dicevo qualche riga sopra, la necessità di rompere con certo ambiente consolatorio e nostalgico di stampo oleografico e folkloristico, mi ha portato ad affrontare anche gli aspetti sociali, politici, intellettuali interconnessi alle scelte musicali. Non ho mai desiderato fare il “cantante”. Ancora oggi ho qualche difficoltà a percepirmi come tale. Nei Cilliri scrivevo per due fantastiche voci ora scomparse entrambe: Enza Alì e Tano Fiorito. Mi preoccupavo di cucire addosso alle loro ugole di pietra e miele le melodie che componevo sui testi degli antichi canti. Io fornivo contenuti, intrattenevo la gente prima dell’esecuzione del canto con aneddoti, storie, racconti di coscienza e di dignità identitarie. Ignazio Buttitta era il maestro di tutti noi. Incantava le piazze con le sue storie e le sue poesie. Siamo nati lo stesso giorno dello stesso mese con Ignazio, lo sai?! a cinquantacinque anni di distanza…vorrà dire qualcosa?! Ho sempre considerato la musica un’arte etica, responsabile, cosciente, non alienante o semplicemente ludica.
A partire dal titolo e dal sottotitolo, questo disco si muove fra giochi di parola e scherzi in musica, ossimori e paradossi. E’ questa una delle possibili chiavi di lettura?
Mi piace lasciarmi catturare dai significati delle parole, perdermi nei meandri dei loro etimi; rimbalzare le loro assonanze e biforcare le polisemie di ogni lemma. La parola è già l’oggetto che essa rappresenta; nelle sue frequenze sonore c’è già la materia che essa descrive. I greci, nel loro ricco dizionario, usavano parole diverse per indicare cose che noi, troppo sinteticamente, chiamiamo con un solo nome. Il tempo per loro era αἰών che rappresenta l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; χρόνος indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore; καιρός indica il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, con una certa approssimazione, quello che noi oggi definiremmo il tempo debito. Così come avveniva per il mare; esso veniva chiamato πόντος per il mare come distesa e viaggio; πέλαγος, vasto e aperto mare; θάλασσα, per un concetto di carattere generale. Ma per rappresentare la materia primigenia del mare allora usavano ἅλς sale. Partendo da questa considerazione ho cominciato a riflettere su tutte le possibili metafore di questo candido elemento. Della sua apparente invisibilità e della sua sostanza collegata alla sapienza e all’intelletto. Alla sua presenza nel sangue, nel sudore e nelle lacrime umane. La sua “pervadenza” in tantissime ritualità sacre e profane. Il concetto stesso di insularità ci rimanda alla radice insul, in-sal su un suolo, sopra il sale, come la sua lontananza ci relega alla dimensione di esuli, ex-sul, ex-sal, distanti da un suolo, dal sale.
“Povera patria”: perché questa cover e quanto Battiato c’è in Muratori e viceversa?
Conosco Franco da una vita. E apprezzo moltissimo la sua opera e il suo contributo nel ri-posizionare il concetto di musica leggera su piani più evoluti e colti. Lui ha sempre rispettato il mio impegno per la cultura popolare siciliana, pur non condividendone l’inevitabile approccio linguistico e dialettale. Il suo rapporto col siciliano è infatti sporadico e non significativo. Quante volte, bonariamente negli anni ottanta, mi consigliava di scrivere in lingua e abbandonare le limitazioni regionalistiche. Quando avvenne la strage di Capaci tutti e due scrivemmo qualcosa sulla scia di quella terribile azione criminale. Lui compose Povera Patria, che sprofonda dentro il fango dei maiali… io scrissi Guerra, ammazzanu li mè frati comu ‘n guerra, e scoppianu li strati di ‘sta terra, semu tutti surdati ‘nti ‘sta guerra e tutti pari ccu lu culu ‘n terra. Due linguaggi ovviamente differenti per rappresentare il disastro di quei mesi. Ho pensato come fosse interessante raccontare il suo brano nella lingua del popolo siciliano, e ne ho tentato una libera traduzione. Lui è stato entusiasta e abbiamo quindi deciso di cantarla insieme per questo disco. Che emozione dividere lo stesso microfono con Battiato! Cantare a stretto contatto di… cuffia. Che artista immenso, generoso, geniale. Credo che ci accomuni una concezione melodica e armonica assolutamente libera da schemi anglo-americani. C’è in entrambi un gusto sottile di cantare la parola, per i suoi accenti, tonici e sillabici, a prescindere dall’impostazione metrica del brano; una faccenda molto cara al canto gregoriano, così come al canto delle lavandaie o dei carrettieri.
Nel disco ci sono numerosi ospiti di gran valore. Li hai scelti con un criterio unitario o più per il loro carattere distintivo?
Bisogna dire che il disco è il prodotto di un incontro umano e professionale con Stefano Melone, grande musicista, compositore ed arrangiatore di molta buona musica d’autore italiana. Da rimarcare le sue collaborazioni con Fossati, De Andrè, Tosca, Bersani… Essere riuscito a coinvolgerlo in questo mio progetto è stato per me un momento di grande crescita e di maturazione. Le collaborazioni con gli strumentisti sono il frutto di scelte condivise e ragionate, per brano, fraseggio, timbro, carattere, umanità. La maggior parte dei solisti appartengono all’area siciliana di miei collaboratori abituali. Con le piacevolissime e illustri presenze di Daniele Sepe, Mario Arcari, Peppe Voltarelli.
Lasciando suonare il disco un brano dopo l’altro si viene colpiti dalla sorprendente varietà d’ambiente sonoro e di stile che si sussegue. Eppure, alla fine dell’ascolto, si vive l’esperienza di condividere una grande unitarietà d’emozioni. Come sei riuscito in questo “miracolo”?
I brani sono il prodotto di un periodo temporale abbastanza prolungato. Come sai non possiedo la dote della continuità nella produzione discografica. L’ultimo, La Padrona del Giardino, è del 2008, sette anni fa. Ciò che scrivi in sette anni possiede necessariamente una discontinuità al limite della incoerenza. Anche se il grosso dei brani è strato composto negli ultimi due anni, diciamo che il lavoro più complesso e articolato è stato quello di riportare tutto il materiale ad un suono, ad una voce, ad un gusto leggermente salato e piccante con una leggero alone pregnante e abbastanza riconoscibile. Il merito è sicuramente di Stefano e della sua enorme capacità di entrare in simbiosi con la materia musicale; lasciando apparentemente intatte le stesure, le coordinate melodiche, ritmiche e armoniche, riuscendo a quagliare quel sale che non vedi al primo sguardo, ma che ha bisogno di temperatura e aria per emergere.
Questo disco si presta anche a una lettura storica dalla quale emerge un’angolatura particolare della tua Sicilia. Cantore di ieri come cantastorie di oggi? La tradizione non manca…
C’è un gruppo di canzoni nel disco che ho voluto traghettare pari pari da un mio concerto del 2011 per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Per la messa in scena di quello spettacolo (che chiamai per l’appunto Povira patria-di uomini, terre, antiche rapine e nuove illusioni) ho letto e studiato decine di documenti sul Risorgimento in Sicilia e al Sud in generale. Ho ascoltato canti di protesta e inni di gioia per l’eroe dei due mondi. Ho messo le mani, e le orecchie sui convinti entusiasmi di un popolo che si vuole affrancare dalla dittature borbonica, anche al costo della propria vita; e le cocenti delusioni e rabbie dovute alle mancate promesse dei governi nazionali. Ho trovato i collegamenti fra una Unità che sa tanto di frettolosa annessione violenta e armata e il conseguente impoverimento del sud e delle isole; fra l’atteggiamento di disinteresse e di incomprensione verso il mezzogiorno e i suoi problemi e il crescente sentimento di avversione verso lo stato unitario e centrale; la nascita di un brigantaggio rurale come unica risposta alle angherie e le ingiustizie istituzionali (come la leva obbligatoria di sette anni e la tassa sui macinati…). Ho conosciuto così una borghesia illuminata di inizio ottocento, che in Sicilia preparava il terreno allo sbarco dei Mille e la cacciata dei Borboni; una sorta di patto sociale fra la classe bracciantile e quella nobiliare, uniti da un inedito afflato unitario e risorgimentale. In queste pagine ho fatto il più emozionante dei miei incontri poetici, imbattendomi nella figura della poetessa di Noto (la capitale mondiale del barocco, in provincia di Siracusa) Mariannina Coffa, che vive la sua brevissima vita fra i versi per una Italia libera e unita, assieme al canto dolente per un amore negato per il suo maestro di pianoforte. È suo il sonetto Ombra Adorata che ho musicato e inserito nel disco. Così come ho voluto inserire Vinni cu vinni che racconta la grande attesa del popolo, entusiasta per lo sbarco di Garibaldi; Chi dici Nicò che narra dei fatti di Bronte (agosto 1860) e della giustizia sommaria di Nino Bixio; E sugnu ‘Talianu, che comincia a far trapelare la disillusione del popolo già nel 1862 con testi ironici e sarcastici sull’italianità acquisita e molto indigesta; così come Povira Patria di Battiato che ci riporta all’evoluzione drammatica di questi patti scellerati fra Stato e mafia politica. Storie di sale amaro.
(dal volume allegato all'ultimo numero della rivista "Le fate")
Attivo fin dai primi anni ’80 con i Cilliri, già collaboratore di Antonino Uccello e Ignazio Buttitta, Carlo Muratori ha attraversato da protagonista, appartato e discreto, la scena musicale italiana, conseguendo numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero. Sale è il suo tredicesimo album che, a distanza di sette anni dal precedente, segna un’altra stazione di grande rilievo in un percorso artistico di straordinaria originalità.
Con Fabrizio de André c'è un solo artista in grado di raccontare efficacemente in musica e parole l'Italia e il Mediterraneo: è Carlo Muratori. L'ultimo disco prima di essere un prodotto discografico è un esercizio di sinestesia. Si ascolta qualcosa ma, allo stesso tempo, si vede, si assapora, si respira: la terra di Sicilia, le piante di limoni, gli scritti di Verga, i cartaginesi, i greci, i fenici Gianluca Grossi
Sale è un disco civile, un disco di rabbia e di rivolta e riesce ad esserlo senza alcun grido, anzi con molti sussurri ed una punta di severità, come si fa quando si è grandi e si conoscono a memoria i maremoti e le macerie inghiottite dalla risacca Michele Burgio
Quello che più emerge da Sale è la varietà di fonti ispirative, come se il fare canzoni di Carlo Muratori fosse, oltre che un generico obbligo morale, un'esigenza interiore alla quale non si può porre né vincolo né freno. Roberto Sacchi
Pregevole e dinamico risulta pure il bilanciamento tra italiano e siciliano: i due vettori linguistici scivolano agevolmente l’uno dentro l’altro, con una prevalenza dell’opzione vernacolare nell’esprimere la percezione emotiva più intima, che affida al dialetto la manifestazione del sé più profondo, di sentimenti che non si sa come altrimenti raccontare nella lingua della comunicazione pubblica Maurizio Agamennone
un libro-cd dove il sale, bianco e luccicante, sarà fattore di sapidità di un progetto che è sì musicale, ma anche di parola, dove alla consueta attenzione nel costruire rime e racconti, equamente divisi tra siciliano e italiano, Muratori aggiunge una lunga parola scritta, un po’ racconto, un po’ meditazione, la struttura del libro appunto, che servirà come sprone per entrare dentro i meandri di un universo nascosto, fatto di emozioni personali e proclami pubblici Gianni Nicola Caracoglia, La Sicilia