Vauro
Antologica 1993/2002
2004, € 15
Formato 21x15, pp. 240
200 vignette per ripercorrere, con l’ironia sferzante di Vauro, dieci anni di storia nazionale, da tangentopoli al secondo governo Berlusconi, colta nella tragicità del contesto internazionale, dalla disgregazione della Jugoslavia alla guerra in Iraq, dagli attentanti contro le torri gemelle in America alle ritorsioni statunitensi contro l’Afghanistan, seguendo l’affermazione di una nuova sensibilità pacifista nel mondo.
Sorretta da una fervidissima coscienza civile, l’attività di Vauro si segnala per la capacità di imporre al lettore una riflessione che, amara e spesso indigesta, lo obbliga a prendere in considerazione anche l’altra faccia della medaglia, svelandogli per intero la complessità e le contraddizioni di determinate situazioni.
Con prese di posizione mai banali al di là della dichiarata scelta di campo, Vauro ha segnato, con il graffio della sua matita, la storia di questo paese, offrendo nelle sue vignette una rappresentazione in presa diretta dei grandi e piccoli eventi che hanno cadenzato la vita italiana negli ultimi trenta anni.
Leggi l'introduzione di Curzio Maltese
Ridere al funerale della politica di Curzio Maltese
Il regimetto in corsa ha reso vana una rituale domanda del giornalismo italiano: la satira è morta? Il dibattito sulla morte della satira, in genere a partire dall’ultima cosa vista in televisione, non usa più. E’ evidente che se fosse morta non ci sarebbe bisogno di proibirla, come fa il regimetto. D’altra parte è ormai piuttosto chiaro che a essere morta è la politica. Purtroppo lo stato attuale del giornalismo non permette di lanciare un’inchiesta sulla scomparsa della politica, che invece è d’attualità da almeno una ventina d’anni. La politica è morta e la satira politica cerca di seppellirla con una risata. Non sempre riesce. A Vauro riesce spesso. La sua vignetta sul Manifesto è più o meno questo, un requiem per una politica che è defunta e non sa di esserlo ma s’aggira per il mondo come uno spettro mostruoso e grottesco. E’ insomma un modo di ridere a un funerale. Che altro potrebbe fare la satira politica?
La politica è sempre di più ridotta a lotta per il potere. La satira è sempre stata lotta per il piacere. Il motto preferito dal politico italiano è non a caso mutuato dalla mafia: “Comandare è meglio che fottere”. L’idea di Vauro è che far satira sia meglio che fottere, in ogni caso meglio che comandare. E in effetti è così. Fare satira, sbugiardare e ridicolizzare l’arroganza eterna del potere, garantisce un piacere quasi fisico, orgasmico, liberatorio. Gli intellettuali che discutono sul ruolo sociale e politico della satira non riescono proprio a capirlo. La satira non serve a fare le rivoluzioni. Per la verità non s’è ancora ben capito che cosa serve a fare le rivoluzioni, a parte la fame. La satira forse non serve nemmeno a cambiare le cose o a convincere qualcuno o a spostare voti. La satira serve soltanto a comunicare fra gli uomini l’immenso piacere del sentirsi liberi, senza padroni esterni o interiori. Non è poco. Se non si considera l’aspetto ludico, gioioso, erotico della satira, non ci si spiega le reazioni esagerate che ha sempre provocato nella storia. Non si spiega l’odio del potere per il satirista che non è soltanto paura d’essere criticato e addirittura ridicolizzato ma anche invidia personale per il godimento altrui. Non si capisce neppure il coraggio del buffone che si fa impiccare dal re per il piacere di una battuta. E di tutti i suoi discendenti che in ogni epoca e in ogni regime hanno affrontato censure e violenze. Il buon satirista è un gaudente che non va volentieri al martirio come i fanatici politici o religiosi. Vale la linea di Rabelais: “Sono disposto a difendere le mie idee fino alla forca. Esclusa”. Ma intanto, prima della forca, ne ha dovute sopportare. Soltanto il piacere della satira giustifica tanti sacrifici.
Nella cultura italiana, controriformista in tutto, il piacere e la satira sono del diavolo. Poche altre attività evocano risposte così rabbiose e violente come l’ironizzare sul potere. E’ anche una questione di sproporzione dei fronti in lotta. Da noi i satiristi sono sempre stati pochissimi e i censori una legione. A essere schietti, in Italia una vera e propria satira libera non c’è stata per secoli. La satira di Johatan Swift, libera di colpire qualsiasi bersaglio, è un lusso da paesi che hanno avuto rivoluzioni. In Italia la satira è sempre stata di regime. Nel senso letterale, il più delle volte. Una satira che stava dalla parte di chi comandava e prendeva per oggetto di derisione gli oppositori, i deboli, gli emarginati, gli stranieri. Satira fascista anche prima del fascismo e naturalmente dopo. Forattini è oggi l’esempio più noto di satira fascista. E poi c’era la satira di regime in senso lato. Una certa satira di sinistra, socialista prima e comunista poi, che era contro il governo ma intanto al servizio di una parte in maniera fanatica, in qualche modo in lotta per un regime futuro. La libertà che l’Inghilterra, la Francia o gli Stati Uniti hanno conosciuto dal Settecento, in Italia è arrivata tardissimo, a metà degli anni Settanta, con Il Male. Ed è durata pochissimo, lo spazio di qualche anno. Per cedere di nuovo il passo a una nuova satira di regime, quella di Cuore, a volte di gran livello ma sempre nata da una costola del PCI.
Vauro appartiene alla generazione del Male e si vede. E’ senza dubbio di sinistra. Anzi, se dovessi definire che cosa significa essere di sinistra oggi in Italia, il nome di Vauro, come quello di Altan, mi verrebbero in mente prima di quelli di Fassino, D’Alema, Bertinotti, Pecoraro Scanio o Agnoletto. Ma la satira di Vauro sulla sinistra non è meno efficace di quella sulla destra. Tanto più quando colpisce politici vicini alla linea del Manifesto. Perché si sa, non è difficile sfottere Prodi da destra e Berlusconi da sinistra. I guai cominciano quando attacchi gli amici del consiglio di amministrazione. Il Bertinotti di Vauro, nella sua vanità di rivoluzionario da salotto televisivo, è particolarmente sublime. Alcune vignette di Vauro hanno descritto meglio di ogni editoriale il dramma del leader di Rifondazione nel seguire la parabola di Cofferati. Memorabile rimane il D’Alema di governo fulminato ogni volta sulla via dell’inciucio con Berlusconi.
(…) Il vero simbolo del lavoro di Vauro però non appartiene al teatrino della politica nazionale. E’ la colomba della pace. La povera colomba sforacchiata, fatta saltare in aria, annerita dalle bombe. E tuttavia riprende il volo, nella speranza di posarsi prima o poi da qualche parte del mondo, di porgere il ramoscello d’ulivo a qualcuno che non l’accolga a colpi di kalashnikov e granate.
Nel lavoro sulla guerra, le guerre in Medio Oriente che ha visto da vicino, la satira di Vauro offre uno sguardo unico, esprime il massimo di libertà possibile. La libertà di guardare alla guerra e alla pace dal punto di vista dell’Altro. L’Altro che non esiste mai nelle prime pagine dei giornali e nemmeno nelle cronache, nei bollettini dal fronte, nel conto delle vittime. Peggio, che non esiste in tanti discorsi dei pacifisti, se non come oggetto di azione politica e non soggetto. E’ l’antico vizio dell’Occidente, non porsi mai dal punto di vista dell’altro da sé. E’ anzi il vizio che ha fondato l’Occidente, con il più grande massacro della storia, quello degli indiani d’America. Ottanta milioni di morti uccisi nel sedicesimo secolo, quando tutta la terra ospitava quattrocento milioni di esseri umani, senza neppure poter contare su armi di distruzione di massa, soltanto spade, pugnali e qualche cannone rudimentale.
(…) Vauro è uno dei pochi veri inviati del giornalismo occidentale sul fronte. Perché non basta installarsi in un albergo di Baghdad per raccontare una guerra. Bisogna saper superare prima il confine che portiamo nella testa, provare a rovesciare il mondo e guardarlo dall’altra parte. Come una volta, quand’era ancora viva, ogni tanto riusciva a fare anche la politica.
Cofondatore di testate entrate ormai nella storia della satira nazionale come Il male, Cuore, Il clandestino e Boxer, Vauro attualmente collabora con Servizio Pubblico di Michele Santoro e Il Fatto quotidiano.
Per essere un vignettista che emette una gag al giorno nella convinzione di commentare i fatti del momento, Vauro sorprende, in questa antologia, per la ricca varietà di osservazioni abrasive senza tempo. Daniele Luttazzi
Vauro è uno dei pochi veri inviati del giornalismo occidentale sul fronte. Perché non basta installarsi in un albergo di Baghdad per raccontare una guerra. Bisogna saper superare prima il confine che portiamo nella testa, provare a rovesciare il mondo e a guardarlo dall’altra parte. Curzio Maltese