Alexandra Nikolskaya
Nicola Scaldaferri
(a cura di)
Lule sheshi/Fiori di prato
Omaggio all'arte poetica di Enza Scutari
2010, € 20
Formato 14x19, 20 immagini in b/n e a colori, pp. 176
In offerta con il 5% di sconto
Enza Scutari (all'anagrafe Vincenzina Cetera), nata a Farneta di Castroregio (CS) nel 1926 ma legata a San Costantino Albanese (PZ) dove ha vissuto per oltre quarant'anni, è tra le personalità più rappresentative della cultura arbëreshe contemporanea.
Con un'ampia antologia dei suoi scritti, un ricco apparato di immagini e i contributi di Francesco Altimari, Anna D'Amato, Alexandra Nikolskaya, Carlo Serra e Nicola Scaldaferri, il volume offre una ricostruzione della sua complessa produzione artistica, mentre nel CD allegato, nell'alternarsi di musiche tradizionali e composizioni originali in una sapiente tessitura di molteplici registri espressivi, un eterogeneo ensemble di straordinari musicisti rende omaggio a un'opera attenta alle sonorità inscritte nelle lingue poetiche del mondo.
Nel CD musiche tradizionali arbëresh e musiche originali di Lorenzo e Nicola Scaldaferri su testi di Enza Scutari, eseguite da Alexandra Nikolskaya, Kristina Mirkovic, Armando Illario, Raffaele Köhler, Francesco Motta, Antonio Pani, Nicola Scaldaferri e i Vjesh (Pina Ciminelli, Dina Iannibelli, Pina Magnocavallo, Lorenzo Scaldaferri e Quirino Valvano)
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Maçia e mitë
Jëma Shën Mitrit
Moj lula çë bëhe n'gusht
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Da Farneta a S. Costantino Albanese
Enza Scutari è una delle personalità più significative della cultura arbëreshe contemporanea, strettamente legata alla comunità di S. Costantino Albanese, piccolo centro della Val Sarmento in Basilicata, dove ha vissuto e operato per gran parte della sua vita e dove ancora oggi continua a trascorrere i mesi estivi. Nota soprattutto come poetessa e autrice di opere in prosa sia in arbëresh che in italiano, insignita anche di significativi riconoscimenti (come il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio), Enza rappresenta una figura assai complessa di artista e intellettuale, il cui spessore quasi stride con la riservatezza del suo modo di operare. Basta considerare che spesso i suoi lavori sono stati pubblicati a sue spese (in edizioni non sempre accurate), oppure su riviste locali, e in parte sono ancora inediti, e questo non rende certo facile una ricostruzione critica della sua produzione[1].
Il suo percorso creativo si presenta poi strettamente intrecciato con i suoi forti interessi letterari, con la sua fede religiosa, con altre forme di espressione artistica (quali la pittura e la musica) e soprattutto con l’attività educativa di maestra, svolta presso la scuola elementare di S. Costantino, che ha costituito per lei un’autentica missione di vita.
Inoltre, all’interno delle attività didattiche, ha rivolto un’attenzione speciale agli aspetti culturali e linguistici arbëreshë, coinvolgendo gli alunni nella raccolta di materiali e tradizioni e facendoli familiarizzare con l’alfabeto albanese, approfondendo la storia degli arbëreshë e dell’Albania; tutto questo in anni in cui questi argomenti non solo non costituivano materia di insegnamento ufficiale, ma venivano talvolta ritenuti di ostacolo per l’apprendimento della lingua italiana.
Il suo nome all’anagrafe è Vincenzina Cetera, ed è originaria di Farneta di Castroregio, piccolissimo centro arbëresh in provincia di Cosenza, nell’area del Pollino, dove nasce nel 1926. A otto anni inizia a studiare in collegio a Matera, città dove avviene tutta la sua formazione scolastica che si conclude con il diploma a pieni voti nel 1945. Riceve importanti riconoscimenti per la sua brillante carriera di studentessa, tra cui una premiazione pubblica con la consegna di un libretto bancario da 200.000 lire. Partecipa poi a Cosenza al primo concorso del dopoguerra per insegnanti elementari e lo supera cominciando così la sua carriera di educatrice.
Nel 1952 si sposa con Alberto Scutari, suo collega; si trasferisce dunque a S. Costantino Albanese, il paese del marito, dove l’anno dopo nascerà il figlio Masino. A S. Costantino fino alla pensione lavorerà come insegnante presso la scuola primaria, esercitando una forte influenza su intere generazioni di scolari di questa comunità (anch’io sono stato suo alunno), che fin dal primo momento la adotta con il nome di zonja Viçenxin (donna Vincenzina).
Enza, assieme al marito Alberto (che sarà anche sindaco di S. Costantino nel quinquennio 1965-’70), fa parte della locale classe di borghesi e intellettuali. Partecipa attivamente, soprattutto negli anni ’60 e ’70, a iniziative che segnano il paese in campo culturale e sociale: dalle attività della sede locale dell’Azione Cattolica (di cui sarà anche presidente) alla fondazione, alla fine degli anni ’70, su sua diretta iniziativa, del Circolo Culturale Vëllamja (La fratellanza) che avrà al suo interno un gruppo folkloristico attivo soprattutto nei primi anni ’80.
Tra gli anni ’60 e ’70 S. Costantino costituisce un centro di grande vivacità culturale, tale da venire denominato “la perla del Sarmento”. Questo anche in coincidenza con l’arrivo nel 1965 di un altro arbëresh della Calabria: papas Antonio Bellusci, noto ricercatore ed etnografo, che sarà parroco per un periodo di otto anni, destinati a restare impressi in maniera indelebile nella memoria collettiva. Papas Bellusci si farà promotore di iniziative di valorizzazione della cultura arbëreshe: le celebrazioni del V centenario dell’eroe albanese Giorgio Kastriota Skanderbeg nel 1968 (importante occasione per gli arbëreshë di tutta Italia per riscoprire le proprie radici); la raccolta di un’ingente quantità di materiale etnografico, che alimenterà alcune delle sue numerose pubblicazioni negli anni successivi[2]; la formazione di un primo gruppo folkloristico e soprattutto la rivista, Vatra Jonë (Il nostro focolare) che catalizzerà le forze intellettuali più vive del piccolo centro lucano, creando anche un importante dialogo con l’esterno, soprattutto con le numerose comunità di emigranti sparse in varie parti del mondo. Tra i redattori della rivista vi è naturalmente Enza Scutari, e sarà proprio su Vatra Jonë che usciranno le sue prime poesie in arbëresh[3].
Il 1973, ultimo anno di presenza a S. Costantino di papas Bellusci, sarà segnato dalla tragedia della frana che danneggerà seriamente il centro abitato e costituirà una battuta di arresto allo sviluppo del paese che si avvia a un lento declino.
A partire dagli anni ’70 Enza comincia a pubblicare le sue poesie, sia in arbëresh che in italiano, su riviste quali Katundi Ynë (Paese nostro) e Risveglio/Zgjimi. Le poesie in arbëresh di questo periodo ricalcano in gran parte i moduli della poesia tradizionale, richiamandone talvolta anche i contenuti. Non mancano riferimenti a fatti reali spesso di cronaca locale: Degez murriza (Rametto di biancospino) si ispira a una storia di tradimento che aveva colpito fortemente la popolazione; Katundi im (Paese mio) al reale racconto di un emigrante che ritorna dall’America e riscontra con amarezza le trasformazioni del paese; Asaj mbrëmje... (Quella sera...) al tragico terremoto che nel 1980 ha sconvolto l’Irpinia distruggendo interi paesi e danneggiando in parte anche S. Costantino. Anche la terribile frana del 1973 è rievocata in due poesie, Viti i zi (L’anno funesto) in arbëresh, e Un fiume di pianto, in italiano, successivamente pubblicata anche in traduzione inglese.
Le poesie in italiano più interessanti ed originali di questo periodo si presentano già fortemente orientate verso la dimensione della ricerca interiore, con richiami costanti al quadro poetico nazionale e internazionale; alcune di queste poesie ricevono significativi riconoscimenti. Va menzionato in particolare il Premio Nazionale di Poesia Giacomo Leopardi di Napoli, dove la Scutari viene premiata nel 1976 (per la poesia Ho sete) e nel 1977 (per la poesia Io sono l’anima). Nel 1980 riceve invece la targa del Circolo Artistico Politecnico di Napoli per una raccolta di poesie in italiano intitolata Manuela, rimasta inedita, e i cui contenuti verranno successivamente inclusi nella raccolta Vega del 1997.
La dignità letteraria della parlata arbëreshe
Con gli anni ’80 si inaugura un salto di qualità nella sua attività poetica, soprattutto per quanto riguarda la produzione in arbëresh. Da un lato vi è un allontanamento sempre più marcato dai moduli poetici tradizionali a vantaggio di una più libera ricerca espressiva; dall’altro comincia l’opera di traduzione in arbëresh di alcuni dei suoi poeti preferiti (Neruda, García Lorca e Ungaretti), che costituirà un significativo laboratorio di sperimentazione linguistica. Il dattiloscritto delle traduzioni in arbëresh di tredici poesie di Neruda è datato 1982; nel 1986 vengono pubblicate le traduzioni in arbëresh di venti poesie di García Lorca; a queste si aggiungerà poi la traduzione di altre sedici liriche di Ungaretti[4].
Certamente le traduzioni sono un’occasione importante per Enza Scutari per approfondire ed affinare le sfumature espressive dell’arbëresh e rendere la poesia scritta in questa lingua più adatta ad un contesto di ampia diffusione. Se il poeta arbëresh Giulio Variboba alla metà del ’700 considerava addirittura risibile esprimere in questa lingua concetti religiosi, spirituali o filosofici (giungendo a ritenere le proprie poesie di ispirazione religiosa quasi frutto di un miracolo)[5], a due secoli di distanza, dopo l’opera di figure come De Rada, Santori e Schirò, questa lingua può aspirare a tematiche poetiche capaci di avere una forza comunicativa che travalichi gli angusti confini dell’Arbëria e delle dirimpettaie terre di oltre Adriatico.
Un anno significativo per la Scutari è il 1984, quando viene pubblicata, nella collana “Quaderni di Basilicata Comunità Arbëreshe”, promossa da Donato Mazzeo, la prima raccolta di poesie bilingue: Bubuqja (Gemme)[6] comprende 24 poesie concepite contemporaneamente in arbëresh e in italiano, secondo una formula assai originale che mira a conferire a entrambe le lingue una pari dignità. Se infatti le poesie composte negli anni precedenti erano o in arbëresh o in italiano, e anche laddove si era in presenza di traduzioni non sempre queste erano ben bilanciate, in Bubuqja l’autrice lavora in parallelo su entrambe le lingue puntando ad armonizzarne i registri espressivi.
Inoltre prima di ogni poesia, vi è una citazione in due lingue, italiano e arbëresh, di versi tratti dalle opere di Neruda, García Lorca, Ungaretti, Baudelaire e Pavese, dai quali talvolta le poesie prendono spunto.
Questa di Bubuqja rappresenta un’operazione chiave non solo nel personale percorso creativo della Scutari, ma certamente anche una tappa significativa nella storia recente della poesia arbëreshe. Risulta illuminante la prefazione dell’autrice, quasi una nota programmatica della sua visione poetica e soprattutto del modo in cui è concepito l’utilizzo integrato delle due lingue (…)
[1] La difficoltà è accresciuta anche dal cambiamento dei titoli di raccolte e poesie ancora inedite che si sono succedute nel tempo, come Qina (Lapiena), Lule shtogu (Fiori di sambuco) per i testi in arbëresh, oppure la raccolta in italiano circolata col titolo Manuela dei primi anni ’80, che non ha mai visto la luce sotto questo nome.
[2] Tra i lavori etnografici di Papas Bellusci in cui compaiono materiali di S. Costantino ricordiamo in particolare: Canti sacri tradizionali albanesi, S. Costantino Albanese, 1971; Il telaio nei testi originali arbëresh, Cosenza, 1977; Magia, miti e credenze popolari, Cosenza 1983; Dizionario fraseologico degli Albanesi d’Italia e di Grecia, Cosenza 1989. Vatra Jonë. Bollettino della comunità italo-Albanese di S. Costantino, pubblicato dal 1967 al 1970.
[3] Si tratta delle poesie: Priru nani (Torna presto), pubblicata nel 1968, seguita l’anno successivo da Katundi im (Paese mio). Tuttavia, come testimoniato dalla stessa autrice in più occasioni, l’attività poetica, intesa soprattutto come forma di espressione di intuizioni liriche e personali, l’ha accompagnata fin dalla giovinezza, anche se a lungo aveva costituito soprattutto un’esperienza intima e riservata.
[4] Le traduzioni verranno successivamente raccolte nel volume Malli i shpirtit (La passione dell’anima), a cura di Anton Nikë Berisha, Tipolitografia Jonica, Trebisacce, 2000. Nelle traduzioni delle poesie di García Lorca e Neruda, la Scutari ha utilizzato le edizioni bilingui in spagnolo e italiano, curate da Claudio Rendina e Giuseppe Bellini, da cui sono tratte le versioni in lingua italiana pubblicate in Malli i shpirtit assieme alle sue traduzioni in arbëresh. Vedi: Pablo Neruda, Poesie d’amore, a cura di Giuseppe Bellini, Nuova Accademia, Milano, 1963; Federico García Lorca, Poesie inedite, a cura di Claudio Rendina, Newton Compton editori, Roma, 1976. Per i testi di Ungaretti invece ha attinto a Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1969.
[5] Così Giulio Variboba si esprime in apertura della Vita della Beata Vergine Maria: “La lingua albanese è così animalesca, così stupida, così lutulenta, che con essa pare che altre parole non possano dirsi che non siano bestemmie, maledizioni, dileggi o vere e proprie oscenità. Ma per preghiere, prediche, argomenti spirituali e filosofia, se vuoi muovere al riso, è sufficiente che cominci a parlare in albanese. Eppure lo Spirito Santo (...) ti promise che saresti stata lodata e benedetta da tutte le creature e le lingue della terra, ha mantenuto la parola e ha compiuto anche questo prodigio, che tu fossi esaltata in lingua albanese”. Giulio Variboba, Gjella e Shën Mëris s’Virgjer/Vita della Beata Vergine Maria (1762), edizione critica e traduzione italiana a cura di Vincenzo Belmonte, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 41.
[6] La poetessa, per ragioni legate alla sonorità del linguaggio, considera il termine Bubuqja come nominativo plurale nella forma indeterminata, traducendolo dunque come “Gemme”.
il CD
1. Çë me pe ti zog sod 2:11
2. Maçia e mitë 2:53
3. Lule sheshi 3:31
4. Falemia Shër Meri 1:02
5. Moj ti pulza këmbaleshe 3:51
6. Përralla e mirë 4:33
7. Kapuçeti i Kuq e ulku 2:44
8. Jëma Shën Mitrit 2:28
9. Tue ecur 2:40
10. Moj lula çë bëhe n’gusht 4:22
11. Ti s’më pirgjegje 4:14
12. Trëndafila baxhanare 3:10
Enza Scutari nelle foto di Lorenzo Ferrarini
Linguista presso l'Università di S. Pietroburgo e traduttrice di lingue balcaniche, Alexandra Nikolskaya è anche attrice, nell'ambito del teatro per l'infanzia, e cantante professionista di rebetiko.
Musicista, virtuoso di strumenti tradizionali, e compositore, Nicola Scaldaferri è docente dell'università di Milano e si occupa di musica tradizionale ed elettronica.