Lello Voce, Frank Nemola, Claudio Calia
Piccola cucina cannibale
Piccola cucina cannibale
2011, € 15
Formato14x19, pp. 92
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In un tempo di migrazioni anche le arti migrano: la poesia innanzi tutto, che è arte migrante per eccellenza. E poiché non si migra mai da soli, la poesia qui incontra la sua sorella gemella, la musica, e poi le immagini e le parole del fumetto.
A partire dai testi di Lello Voce, nel loro accordarsi con le musiche di Frank Nemola, nel loro slittare nei disegni di Claudio Calia, prende corpo la ‘macchina celibe’ di Piccola cucina cannibale – un CD di spoken music, un libro di poesia, una plaquette di poetry-comix – messa in moto con la complicità di autori e interpreti come Paolo Fresu, Michael Gross, Antonello Salis, Maria Pia De Vito, Canio Loguercio, Rocco De Rosa, Stefano La Via, Luca Sanzò e Paolo Bartolucci.
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La poesia è un’arte che abita il tempo. E che ne è abitata. Quale che sia la sua storia, più o meno dal quindicesimo secolo in avanti, i millenni precedenti l’hanno formata come arte dell’oralità e l’oralità abita il tempo (e fa risuonare lo spazio). La poesia è, innanzi tutto, la sua durata, il suo realizzarsi, eseguirsi, performarsi nel tempo, attraverso le vibrazioni della voce del poeta, o di chi, in vece sua, la ‘recita’: troviere, trovatore o giullare che sia. Essa percorre il tempo, scorre dentro di esso; l’esistenza di figure come la dialefe o la sinalefe, la dieresi e la sineresi, (essendo evidente che l’accorciamento o l’allungamento, a cui queste figure presiedono, non è certo di natura grafica o segnica ma piuttosto riguarda l’articolazione concreta dei segni, la loro esecuzione nel tempo, il loro ‘decorso’) è la prova inoppugnabile di quanto una poesia sia qualcosa che ha una durata nel tempo, un’esecuzione, un’azione agita con il corpo e con la mente, una disciplina della lingua e delle corde vocali, dei polmoni e del cuore, nel suo realizzarsi in un dato momento, con una certa velocità, con una durata, formalmente decisiva, che divide il suo nascere dallo spegnersi della voce che la esegue.
La poesia è un’arte che abita il suono. E che ne è abitata. La poesia è fatta di una materia precisa, quell’insieme di vibrazioni fisiche ed emissioni sonore che chiamiamo voce. La poesia si propaga. La poesia ha un corpo, corpo mutevole, che rimbalza e si infiltra, che penetra, fa eco, indica, si atteggia nello spazio, lo percorre, la poesia ha dita fatte di vocali e consonanti per battere e carezzare, per stringere e per allontanare, per catturare e per liberare, per coprire e per svelare. Se per millenni la poesia è stata edificata sulle rime, ciò è accaduto per la sua natura squisitamente sonora e da questo punto di vista la rima e tutte le figure ad essa riconducibili (dall’allitterazione alla cobla capfinida) sono il corpo stesso della poesia, i suoi muscoli, i suoi polmoni, il suo fegato, il suo scheletro, e il suo cuore.
La poesia è un’arte che abita la voce, ne cavalca le onde (sonore), sta sulla loro cresta, sfrutta la loro energia, la loro ‘dinamica’, per trasformarla in una direzione, in un senso, in quello che la critica usa definire un ‘significato’. La voce della poesia è esattamente la voce del poeta, mai il contrario… Parlare di poesia muta, scorporata, puramente mentalistica è, dunque, fare un ossimoro. È ignorare la natura stessa della ‘funzione poetica’ (Jackobson) in cui i tratti sovra-segmentali assumono un’evidente significanza. Parlare del corpo della poesia è, invece, la nostra necessità impellente. Quella che renderà di nuovo possibile il suo futuro, attraverso il riconoscimento delle sue radici, l’auto-agnizione che le ridarà identità e dignità. È la sua ‘durata’ il suo appartenere integralmente al tempo, al corpo, al luogo di chi la pronuncia, al suo ‘presente’, il suo essere ‘atto’, che fa sì che essa possa “vincere di mille secoli il silenzio”; la poesia è una ‘materia’, una ‘concretezza’ (De Campos), prima che un segno o un simbolo, e il suo dio è Efesto e non Apollo.
La poesia è un’arte che abita il ritmo. E che ne è abitata. Bisogna eseguire una poesia, anche se la si legge a mente, bisogna agire i suoi accenti, battere il tempo di ogni stress. Solo così quella poesia vive, si svela, perché la poesia è un’arte dinamica e l’immobilità la uccide. Il ritmo della poesia è il risultato dell’intreccio tra le ragioni della forma (e della storia) e quelle del respiro, tra la lentezza e il peso dei significati e la velocità e la leggerezza del suono che li trasporta.
La poesia è un’arte che abita la lingua. E che ne è abitata. La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili. Il compito del poeta è, perciò, far sì che le parole comunichino il più possibile, il meglio possibile, nel modo più imprevisto, profondo, il compito del poeta è ‘tenere in esercizio la lingua’, le parole (Pagliarani), o, se si preferisce, valorizzarne, scoprirne le ‘pieghe’ (Deleuze), dar loro una nuova forma in cui possano di nuovo riconoscersi e risuonare. Durata, ritmo, suono, lingua: queste sono, a mio parere, le forme della poesia. Tutte le sue forme. Perché la poesia è un’arte plurale. La poesia non si scrive, essa si compone. A maggior ragione quando incontra altre arti, come la musica, rinnovando le sue più antiche radici, o altri media, come il video, le immagini, sperimentando sentieri ancora in buona misura inesplorati.
La poesia è un arte del corpo, tanto quanto della mente, e della sua semiotica concreta, non può in nessun caso essere ridotta all’esercizio di un codice muto, né può mai esserle precluso il dialogo con l’altro da sé, perché il dialogo con l’altro da sé è esattamente la ragione della sua stessa esistenza: essa pertiene tanto all’uso della lingua quanto a quello del respiro, tanto alla disciplina della parola quanto a quella della voce. Essa è sempre se stessa, ma è sempre disposta a trasformarsi nell’altro, a fondersi, a cibarsi e ad essere fagocitata.
La poesia è un’arte che abita i segni. E che ne è abitata. Quale che sia la sua storia, più o meno fino al Quindicesimo secolo, i secoli seguenti l’hanno, per l’appunto, irrimediabilmente ‘segnata’, infettata, ferita, colpita, mutata, l’hanno evoluta, fino al punto che le sue cicatrici sono oggi la forma della sua bellezza e della sua efficacia e dunque essa non è più, non può più essere suono, senza essere prima segno muto. Scrittura. Non può più essere pura oralità, anche se non potrà mai rinunciare ad essere ‘oratura’ (Hagege). Ma il poeta, poi, scrive sempre ‘con le unghie’ (Haddad) e mai con la penna, il poeta legge sempre con le orecchie (e con la voce) e mai con gli occhi, il poeta immagina sempre con il corpo, e con il ritmo del respiro. La poesia è, insomma, etimologicamente, un ‘fare’. Il suo andare a capo, nello scritto, è solo il simbolo di un movimento della voce, è l’insegna del ritmo, una notazione ‘temporale’, ma nulla di più. Certo non l’essenza del fare poetico. La lettura poetica ad alta voce, perciò, non è mai un’interpretazione attoriale, ma piuttosto un’esecuzione, anzi una messa in atto, è una performance. Ma lo è da millenni. Da sempre. Poesia performativa, multimediale, spoken word, hip hop poetry, jazz poetry, spoken music (come si dice oggi in certi ambienti letterari e musicali di New York, per i casi in cui la lettura ad alta voce si fonde con la musica), però, non solo sono definizioni insoddisfacenti (pleonastiche o tautologiche, improprie, superficiali, parziali), ma anzi rischiano di indicare strade sbagliate. Se mi ostino a negare ogni altra definizione per ciò che faccio, che non sia semplicemente quella di ‘poesia’, è proprio perché credo che la mutazione delle forme del fare poetico a cui stiamo assistendo non influisca sostanzialmente sulla sua natura e sulle sue caratteristiche. Oppure, se davvero ci occorre un nome nuovo per tutto ciò, noi quel nome non l’abbiamo ancora trovato. Perché le cose esistono prima dei nomi, anche se poi quei nomi, che sono essi stessi ‘cose’, ne influenzano la natura e la percezione. La critica attualmente legge (ed è in condizione di leggere) solo due delle forme della poesia: la lingua e, sia pur sotto forma di modello, sia pur trasformando spesso la prosodia in simulazione, affidandosi alla reticenza, quella del ritmo. Sulle altre non può, non vuole e soprattutto non sa dare risposte. Essa è insomma, letteralmente, ‘critica letteraria’, ma non è ancora capace di essere ‘critica poetica’. Ma questa sua ‘omertà’ è di grave danno alle possibilità della poesia di raggiungere i propri obiettivi: la poesia, senza la critica, è zoppa, rallenta, va a balzelloni. Ed è stupefacente che, pur di fronte all’evidenza di tante esperienze poetiche che nel mondo oggi intendono la poesia come un’arte della voce, del suono, del corpo, che la mescolano e la fanno interagire con altri media e altre arti, la critica non abbia ancora accettato la sfida di rinnovare radicalmente le sue categorie e i suoi strumenti di analisi e di giudizio. Ma che anzi spesso, almeno una parte di essa, preferisca arrestarsi al pregiudizio.
La poesia è un’arte che abita il mondo. E che ne è abitata. La poesia è un’arte che crea mondi a partire dal mondo. Dunque essa non può ignorare il mondo. La poesia è una dinamica di senso e significato messa in moto dall’energia dell’attrito del reale a contatto con i sogni, le speranze i dolori degli uomini. (continua)
il CD
1. Piccola cucina cannibale 4:31
Lello Voce, Paolo Fresu, Frank Nemola
2. Napoletana (serenata a dispetto) 9:38
Lello Voce, Canio Loguercio, Rocco De Rosa
3. La rosa e la voce 6:53
Lello Voce, Michael Gross, Frank Nemola
4. Rivoluzione fragile (perché è oggi assolutamente necessaria una) 4:01
Lello Voce, Frank Nemola
5. Canzone del maggio 4:41
Fabrizio De Andrè, Nicola Piovani, Giuseppe Bentivoglio – Libero arrangiamento e remix Lello Voce, Frank Nemola
6. Lai del ragionare esperto (rabbitsbelongtome) 11:17
Lello Voce, Paolo Fresu, Frank Nemola
7. Piccola madre 3:47
Lello Voce, Frank Nemola
8. Lai del ragionare lento 9:59
Lello Voce, Michael Gross, Frank Nemola
9. Il verbo essere 6:02
Lello Voce, Frank Nemola, Antonello Salis
I disegni di Calia
Il video
Lello Voce Poeta e scrittore, tra i pionieri europei della spoken music e, in Italia, del Poetry slam, con spettacoli e performance in giro per il mondo. Tra i suoi titoli Farfalle da combattimento, Fast Blood, L’esercizio della lingua. I suoi romanzi sono stati riuniti ne Il Cristo elettrico
Frank Nemola Già attivo nella scena underground degli anni '80 con BandAid, produttore dei primi gruppi italiani di hip-hop, attualmente collabora, sia in studio che nei live, prevalentemente con Vasco Rossi.
Claudio Calia Curatore insieme ad Emiliano Rabuiti delle antologie dedicate al fumetto indipendente italiano Sherwood Comix, è autore di Porto Marghera - la legge non è uguale per tutti, E' primavera - intervista a Antonio Negri e, con Luana Vergari, di Caro Babbo Natale....
Lello Voce è un anfibio in grado di muoversi magistralmente sia in poesia che in musica, è il Gil Scott-Heron nostrano, una delle voci più interessanti della poesia italiana, tra i fondatori del Gruppo 93, il primo in Italia ad introdurre il Poetry Slam (…) Piccola cucina cannibale è il suo nuovo disco/libro di poesia (…) Un esperimento raffinato ed elegante (…) Un’opera di confine dove il suono delle parole viene rafforzato dalla “voce” graffiante del poeta/cantante (?) e dalle note di artigiani di musica elettronica. “Piccola cucina cannibale” spinge e corrompe le definizioni dei generi in quei luoghi poetici che aspettano ancora un riconoscimento, un nome, perché troppo distanti, perché le “parole sono il ritmo della riscossa” . Daniele Sanzone- 'A67, Il fatto quotidiano
al di là del muoversi ai confini, che di per sé non è garanzia di nulla, il risultato è veramente di qualità. Dà gusto, infatti, sentire le rime intelligenti, divertenti, divergenti, taglienti, dolenti, irriverenti, convergenti, severe e leggere, scanzonate e ribelli di Voce declamate, da consumato rapper partenopeo, sopra a raffinate basi di trip-hop e minimal techno. Un elaborato telaio di musica elettronica a cura di Frank Nemola dove, a turno, la tromba di Paolo Fresu, quella di Michael Gross o la fisarmonica di Antonello Salis ricamano ipnotici arabeschi jazz.(...) Il suo modo di dare voce alle parole sulla e con la musica rivela un’attitudine alla composizione di derivazione chiaramente hip-hop, universo culturale al quale Voce è indissolubilmente legato. Per l’esattezza è il modo del poeta che si è fatto rapper come è successo, nel corso del tempo, ad illustri colleghi statunitensi quali Gil Scott-Heron, Saul Williams, Last Poets, Ursula Rucker. Piero Santi, L'Unità
Attraverso i nove frammenti poetici musicati si compone una sorta di teatro-canzone d'avanguardia nel quale musica, poesia e arte figurativa si sposano in un unicum di grande forza immaginifica, il cui vertice si tocca nella conclusiva Il Verbo Essere. A metà strada tra una plaquette di poesia, un opera di poetry-comix e un cd di spoken-music, questo progetto rappresenta una rivoluzione nell’ambito della scena poetica italiana, avendone superato la rigidità a favore di una visione più aperta verso la contaminazione con altre forme artistiche, perché si sa è proprio la poesia che muove il mondo. Salvatore Esposito, BlogFolk
Ritrovo, nel loro lavoro, lo spirito mitologico e utopistico della Camerata fiorentina, e la stessa propensione a realizzare un’opera che coinvolga la parola come il suono come l’immagine. Il mito non è forse quello della grecità, ma quello della voce come essenza profonda della poesia, nella sua arcaica radice orale (…)Il tutto è di ottima qualità. I testi poetici, che sono il centro del lavoro, si leggono e si ascoltano con piacere, accompagnati da belle musiche, con immagini evocative. Il risultato, qualunque cosa esso sia, è interessante, spesso coinvolgente… Alcuni pezzi, come la riscrittura della Canzone del maggio, o il componimento Il verbo essere, con cui si chiudono libro e disco, sono davvero memorabili. Daniele Barbieri, Guardare e leggere
Il titolo è insieme un omaggio ai miei maestri brasiliani, Haroldo e Augusto De Campos, e una esplicita dichiarazione di poetica. Di cannibalismo, cioè di capacità di divorare, poeticamente, tutto ciò che ci ha preceduto e che amiamo, per trasformarlo, nutrircene e farne qualcosa di nuovo (…) la capacità di conoscere il mondo da una prospettiva sempre imprevedibile e profonda, una prospettiva che solo la poesia può avere, e di riuscire a comunicarlo con efficacia, coinvolgendo anche le emozioni di chi ne fruisce. C’è un solo modo di rispettare la Tradizione, insomma: rinnovarla. Partire dalle radici e ripercorrere tutto il fusto, per far sì che, infine, sui rami della cima nasca un nuovo fiore: un ‘Fiore inverso’, come definiva la poesia il grande trovatore provenzale Raimbaut D’Aurenga. Sandra Bardotti, Wuz, intervista a Lello Voce
Lello Voce che da sempre segue il suo progetto di riportare la poesia all'origine della tradizione orale, fa un passo (ancora) più avanti e ne propone la contaminazione, anzi la migrazione, verso la musica e la graphic. Un libro più CD (...) da leggere, da ascoltare, lasciandosi attraversare. Maria Grazia Ligato, Io donna-Corriere della Sera
Lello Voce cantore dell'oggi con uno sguardo dietro di sé. La ricerca del poeta, nato a Napoli ma trapiantato nel Nordest, è questa: «Una poesia che nasce e torna nel corpo del poeta, nella sua vocalità. Quindi anche se può sembrare un'opera di avanguardia, in realtà non lo è, almeno non nel senso che diamo a questa parola. C'è solo un modo di rispettare la tradizione: dobbiamo rinnovarla, ma davvero». (...)Lello Voce ridà valore all'oralità della poesia, legandola al suono degli strumenti e creando così un'altra cosa che è canto. Il disco di Piccola cucina cannibale è nato in questo modo. Il poeta in sala d'incisione ha registrato i testi avendo come unica base il clic del metronomo. Poi si sono aggiunte le musiche elettroniche di Frank Nemola e gli inserti degli altri musicisti, infine le voci di Paolo Bartolucci ("La piccola madre") e Maria Pia De Vito ("Napoletana"). Donatella Coccoli, Left
Le dense chine di Calia mescolano parole e immagini in un flusso inizialmente piuttosto lento, che diventa quasi straziante, se nella lettura delle immagini teniamo conto del testo che accompagnano. Poi nel brano che dà il titolo all’opera, la performance prende forma e vediamo rappresentati il poeta e il musicista, sul palco. Il sentimento e la lotta descritti dalla poesia si spostano sempre di più dall’interiore al collettivo e il messaggio si fa sempre più politico, con murales e immagini di roccaforti, interiori e collettive. Le fitte inchiostrature di Calia tendono a imprimersi nella mente del lettore e donare maggiore spessore alle parole di Lello Voce, ricordando in certi passaggi certa illustrazione e fumetto politico di autori come Eric Drooker o Seth Tobocman. Un’ottima prova, che lascia la voglia di vedere di più (magari proprio alle performance live multimediale che gli autori stanno eseguendo). Valerio Stivè, Lo spazio bianco (nel cuore del fumetto)