Roberto De Simone
Son sei sorelle
Rituali e canti della tradizione in Campania
Formato 21x21, brossura, foto di copertina (volume e cd) di Mimmo Jodice, disegni di Gennaro Vallifuoco, pp. 372
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A oltre quarant'anni dalla pubblicazione dei mitici "sette microsolchi", le memorabili registrazioni realizzate in studio da Roberto De Simone, riunendo i più rappresentativi cantori di una cultura secolare già allora in via di estinzione, assieme a materiali sonori del tutto inediti, raccolti sul campo nel corso di una pluridecennale ricerca estesa a tutto il territorio regionale.
Registrazioni in studio e riprese sul campo sono composte, secondo l'inarrivabile sensibilità musicale dell'autore de La gatta cenerentola, come una straordinaria sinfonia che restituisce all'ascolto il canto di un popolo, l'anima e il cuore palpitante di una tradizione ferita a morte.
"In rapporto a quei canti registrati trenta anni orsono, espressioni di un simbolico anno lunare, ho organizzato gli altri materiali come espressioni di un anno solare. Il cerchio si chiude, la sacra rappresentazione è da considerarsi compiuta, come quelle antiche immagini della crocefissione di Cristo, con il sole a destra e la luna a sinistra".
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… ed è il tempo: quel nodo scorsoio che oggi non può più impiccare, perché fu reciso circa trenta anni orsono, quando ci si rese conto che occorreva impiccare il tempo stesso, per illudere la gente sulla morte delle ore che trascorrono, delle giornate che passano, degli anni che si consumano in una crociera senza più approdi, senza mete, senza terre da toccare.
E il futuro, quale futuro, che significa futuro? Esiste più il futuro con un Moloch inceneritore delle parole quotidiane, di piccoli gesti del comunicare, di silenzi assorti nel ricordare, di colpe e tradimenti incisi con il tic-tac del cuore di ognuno? E mi riferisco anche a quel Moloch – lavagna televisiva e comunitaria di solitudini lunari – in cui la parola futuro ha qualcosa di spaventosamente preistorico, da osservare in un museo paleontologico di ossa di dinosauri,
onde rassicurarsi sorridendo che quei mostri non esistono più, che fanno parte solo del passato.
E allora ci si chiede stupiti perché esistono il terrorismo, la guerra in Iraq, le torture militari, e subito si corre a rassicurarci con la sorridente blandizia dei premier televisivi, con la burbera bonomia dei presidenti texani, custodi dell’ordine mondiale contro il disordine di chi reagisce alla violenza legittimata, alla violenza giustificata in nome della democrazia, della libertà, e di tutto il corollario di maschere democratiche, messe in campo dal capitalismo a oltranza più sfrenato e ipocrita.
E c’era una volta il passato… quando era la memoria a guidare il presente, una memoria lingua viva dei morti, i quali oggi finiscono in discariche, piuttosto che in cimiteri, perché fa male alla Coca Cola il de profundis, fa male alle multinazionali del petrolio un requiem per i soldati morti in guerra, da seppellire frettolosamente con una cerimonia di patatine Mc Donald con sugo di generali, bandiere, e cordogli di capi di Stato.
E se di passato possiamo ancora parlare è come se ci riferissimo solo a un passato remoto, dal momento che il passato prossimo e l’imperfetto sono stati aboliti dalla sintesi linguistica della pubblicità.
Ed allora, dopo trent’anni, da quando pubblicai sette microsolchi di canti etnici registrati in studio, mi accingo a pubblicare di nuovo quelle esecuzioni esemplari, effettuate dagli autentici rappresentanti di una cultura millenaria, già in crisi negli anni Settanta e prossima a sparire.
Oggi, difatti, quegli esecutori sono quasi tutti defunti, né sono stati sostituiti da eredi culturali in grado di rimpiazzarne l’interiorità religiosa, l’autorevolezza rappresentativa, che una volta garantivano la funzionalità collettiva di quei canti, di quelle musiche, di quei gesti, di quei riti. In effetti, ciò che si è esaurito con la scomparsa di quei virtuosi del tamburo, della vocalità, è la religiosità, la loro sacerdotale sacralità, che determinavano lo zenit del ritmo e delle modalità stilistiche, in virtù delle quali prendeva vita quel tessuto liturgico di dialoghi, di improvvisazioni, di linguaggi atemporali in cui si riconosceva tutta una gente, in cui ci si accampava provvisoriamente in un presente metastorico, che inglobava il passato e si proiettava nel futuro.
Né di ciò erano inconsapevoli quegli antichi rappresentanti della tradizione, i quali definivano le feste e le manifestazioni ad esse associate come pura devozione e rilevavano che nei giovani il movente devozionale era quasi assente, per cui la tradizione agonizzava senza prospettive di continuità futura.
E la tradizione, difatti, si è spenta di colpo, di botto, come colpita al cuore da un infarto culturale, fulminata da ischemia alle coronarie cui non giungeva più il sangue puro della collettività, cui quelle espressioni erano necessarie come l’ossigeno alle vie respiratorie della propria identità. E la Campania ha perso un bene inestimabile, un’anima culturale da considerarsi patrimonio dell’umanità; un’anima che viveva in accordo con la natura, nel rispetto degli alberi, delle acque, delle lucciole, nel rispetto di quella collettività che, malgrado lo sfruttamento di cui era vittima e i secolari disagi, mostrava una sua autonomia culturale di cui era fiera e soddisfatta. Né qui sto a rinverdire il mito del buon selvaggio o a proporre l’arcadia del sottoproletariato. Ma, in riferimento alla città di Napoli e al suo circondario, se si è estinta la tradizione, non si è affatto estinta quella classe di esclusi, di emarginati che con l’antica tradizione si esprimevano. Parlo di quegli abitanti della periferia, della Sanità, dei Vergini, di San Carlo all’arena, della Ferrovia, del Vasto, di Secondigliano, di Scampia; parlo di quei ragazzi ai quali è preclusa ogni speranza di inserimento, di occupazione stabile; per i quali lo Stato e le istituzioni, essendo assenti, sono considerati estranei o addirittura nemici; giovani che, sprovvisti di titoli di studio, sopravvivono alla men peggio, magari praticando lo scippo, la piccola truffa, il furto occasionale. Ma è doveroso parlare anche di altri che, a onor del vero, se non emigrano al Nord o in Germania, si sottopongono a essere sfruttati come ragazzi di bar, come muratori sottopagati a giornata, come idraulici, come operai in fabbriche abusive, per lo più pagati al nero e quindi privi di qualsiasi assistenza sociale. Essi sono amaramente convinti di non avere un’identità civile, ma di vivere di contrabbando in una società napoletana dove vige da secoli la cultura del privilegio, della raccomandazione, della sopraffazione sociale, della divisione profonda tra i figli di papà e i paria. Infine parlo di quei ragazzi che, cedendo alle lusinghe del consumo, a una disperata rabbia autodistruttiva, cadono nei tentacoli della camorra, dello spaccio di droga, essi stessi vittime di stupefacenti, per cui, in fase terminale, li vedi traballanti per le vie, o giacenti qua e là, sulle panchine, sotto i portici, inseguendo un illusorio paradiso senza Bronx e quartieri bene, senza angeli poliziotti, senza distinzioni tra santi e dannati.
Frequentemente li ho osservati, questi sfiduciati giovani che sanno di non essere nessuno, eroi e vittime della loro precarietà, con gli occhi fissi nelle vetrine del centro della città, in Galleria, in Via dei Mille, lì dove si espongono gli abbigliamenti firmati, le scarpe, le cinture e i capi di vestiario come quelli degli “amici” televisivi dei reality show, e il cristallo stesso riflette col cinismo dei prezzi lo scandalo di una società classista divisa in ricchi e poveri, in privilegiati e sfruttati.
Ma la menzogna metropolitana dei mercati videocratici non può scalfire la lucidità di chi sa di restare dall’altra parte, di chi sa che non consumare significa non esistere; insomma, quei ragazzi, proprio specchiandosi in quelle ostentazioni di benessere fittizio, sono consapevoli di restare esclusi dal video, da quelle vetrine, dalle stesse discoteche in cui si sentono più frustrati che mai, pur possedendo, talvolta, la moto o la macchina di seconda o di terza mano e il telefonino.
E alcuni di loro li ritrovo nelle candide divise dei fuienti di Madonna dell’Arco, in un tragicissimo rituale nel corso del quale, in piena città, essi si mostrano scandalosamente religiosi, eppure esclusi dalla stessa Ufficialità della Chiesa. Ma alle antiche feste, no, essi non partecipano più come prosecutori dei cantatori e dei suonatori, che pure appartenevano alla loro identità o non identità di esclusi. Del resto, nella babele del capitalismo vertiginoso, dei modelli di comportamento mediatico, quale rassicurazione offrirebbe una cultura popolare, da sempre considerata contrassegno dei poveri e degli emarginati?
Quindi, ciò che oggi sopravvive nelle date rituali, nelle larve di feste definitivamente defunte, è lo stupore di alcuni vecchi che assistono scuotendo il capo a danze e a canti totalmente svuotati di forma e di contenuto, spesso gestiti dalle Pro Loco, da organizzazioni comunali, o pseudo culturali di carattere politico.
Accade spesso, quindi, di osservare, in provincia, giovani borghesi muniti di tamburo e ragazze abbigliate con lunghe gonne esotiche esibirsi in danze (dette a sproposito “tammurriate”) ridotte culturalmente alle finzioni di una società in cui, pur essendo proibito essere poveri, la povertà è rappresentata da blue-jeans lisi e fintamente laceri; in cui si parla a sproposito di solarità, di energia, di mantra, di psicanalisi, di liberazione, come di tammorre, di tarantelle e di tutta quella paccottiglia, di quella chincaglieria che costituisce, tra l’altro, la rappresentatività del perbenismo culturale di tipo sinistrese. Né costoro hanno consapevolezza che nell’autentica tradizione un’esecuzione musicale non ha nulla a che vedere con l’esibizione; che la devozione non lascia spazio al compiacimento; che per partecipare a una festa bisogna essere coro e non protagonisti.
Ed ecco, invece, a Madonna dell’Arco, come nel centro storico di Napoli, altri gruppi di giovani agitare insensatamente sonagli e tamburi, ragazze dimenare le braccia e dinoccolare i polsi per scuotere le castagnette, scimmiottando impudicamente le contadine, senza rendersi conto di essere prive di quell’aristocrazia che connotava l’antica gestualità delle classi rurali. Essi, insomma, rappresentano, magari inconsapevolmente, quella gioventù priva di punti di riferimento, ma anche quell’arroganza culturale della piccola e media borghesia, quella superficialità vorace alimentata dalle mode, quel mimetismo comportamentale e colonialistico che tritura in un’unica poltiglia il tarantismo, il reggae, le fronne, il blues, le tammurriate e tutto ciò che oggi costituisce la marmellata rappresentativa del giovanilismo mediatico, di quei giovani, ahimé, già morti prima di diventare vecchi, di quei giovani che esprimono un vuoto di valori, e si proiettano nella mercificazione dei mass-media: ragazze super truccate con anelli al naso, alle sopracciglia, alle labbra, a ombelichi scoperti, e ragazzi palestrati in blue-jeans cadenti, per lasciare scorgere l’elastico degli slip marcati doc. Il rovescio della medaglia è costituito dai ragazzi proletari che, angosciati dalla loro diversità, pur indossando le apparenti uniformi del consumismo, dopo aver barattato la loro identità, ritrovano nelle vetrine delle proprie frustrazioni gli oggetti della loro antica cultura, privati dell’anima ed esposti in vendita come prodotti di consumo.
Alla luce di tali constatazioni, di tali inquinamenti, ho deciso di pubblicare di nuovo quei sette microsolchi, e aggiungere a quei materiali una serie di registrazioni effettuate sul campo all’inizio degli anni Settanta. Si tratta di nastri incisi proprio nel momento rituale delle feste, magari privi di perfezione tecnica, ma ricchi di una coralità dirompente, di una verità espressiva, di uno spessore rituale, religioso, rappresentato al massimo.
Saranno queste registrazioni la celebrazione dell’assenza. Ma saranno, esse, la cartina di tornasole per evidenziare le innumerevoli mistificazioni e contraddizioni, operate in nome di un mondo estinto?
Ed allora, in rapporto a quei canti registrati trenta anni orsono, espressioni di un simbolico anno lunare, ho organizzato gli altri materiali come espressioni di un anno solare. Il cerchio si chiude, la sacra rappresentazione è da considerarsi compiuta, come quelle antiche immagini della crocefissione di Cristo, con il sole a destra e la luna a sinistra.
I sette CD
CD 1 77.41
1) La leggenda delle sette sorelle e canti per Montevergine 6.13
2) Canti sommesi sul tamburo 5.38
3) Canti sul tamburo a S. Maria di Castello 9.00
4) Fronne, canti e ballo giuglianese 20.52
5) Canzone de lo Capodanno 9.53
6) Sonata di richiamo per il raduno del gregge 2.52
7) Ingresso del Carnevale 4.32
8) Il rosario carnevalesco 2.07
9) Tarantella della “Vecchia del Carnevale” 8.25
10) La Canzone di Zeza 2.10
11) Sonata per santa Maria del Monte 2.11
12) Canti prignanesi 3.42
CD 2 78.22
1) Canti per la potatura o serenate 7.3
2) Fronne e canti di stile pomiglianese 14.16
3) Canti giuglianesi per Santa Maria dell’Arco 20.58
4) La Zeza di San Potito 14.20
5/6) Carnevale della Resistenza 1.14 +2.58
7) Tarantella di Carnevale 9.28
8) Lamentazioni per la morte di Carnevale 3.49
9) Serenata agropolese 4.10
CD 3 77.20
1) Canti paganesi per la Madonna delle galline 18.17
2) Canti scafatesi per la Madonna dei Bagni 20.24
3) Lamentazioni per Carnevale 5.56
4) Il rogo di Carnevale 3.57
5) Maria lu gioverì santo 5.01
6) La morte di Gesù 5.30
7) Il Venerdì Santo delle Confraternite nel Cilento 18.14
CD 4 78.42
1) Canti lirici di Sanza 11.13
2) Canti di lavoro di area casertana 4.35
3) Richiami di venditori 4.54
4) Canti per la lavorazione della canapa 6.29
5) Musica dei morti e “Pastellessa” per S. Antonio Abate 5.22
6) Canto e danza di Casatori 9.10
7) Lauda “Debbo partire da te morto Signore” 3.20
8) La “funzione” dei fujenti 9.19
9) Canto devozionale e crisi rituali dei fujenti 8.03
10) Danze con flauto e tamburo 1.27
11) Danze e canti a Briano 5.10
12) Canti “a ffigliola” 5.44
13) Canti sul tamburo 3.51
CD 5 76.45
1) Miserere 3.46
2) La “ ’Ndrezzata” per la domenica in albis 6.32
3) Canti sul tamburo a Lèttere 10.11
4) Canti a distesa di carcerati 6.38
5) Litanie pentecostali a S. Maria dell’Arco 3.23
6) Canti maiorini per S. Maria Avvocata 10.02
7) Canti a distesa, filastrocche e monorimi nel sabato dei fuochi 17.57
8) La festa della Madonna delle galline 3.29
9) Novena e preci delle “parenti di San Gennaro” 8.35
10) Pellegrinaggio a Montevergine 3.32
11) Canto di legatura del grano 2.34
CD 6 77.10
1) Canti a ffigliola e canti sul tamburo di Terzigno 20.32
2) Tarantella per la Madonna del Carmine 5.13
3) Rosamarina di San Michele 9.00
4) Ascesa lungo la Scalea santa 4.47
5) Tarantelle a tavola 11.50
6) Canti contadini di stile polivocale 6.04
7) Canto di lavoro alla teresella 2.52
8) Canti lirici di vendemmia 4.57
9) “Compagni, il due giugno” 2.44
10) “Patrone, si vuo’ metere lu ggrano” 1.07
11) Canti di carrettieri alla “cilentana” 7.57
CD 7 76’ 43”
1) Novena per l’Immacolata 4.28
2) Novena per Gesù Bambino 4.20
3) Tarantella di zampogne 1.17
4) Tromba montemaranese 2.45
5) Tarantella montemaranese 6.07
6) Il doppio flauto maschio e femmina 3.01
7) Tarantella di Montemarano 14.31
8) Addio alla Madonna di Montevergine e protesta 3.36
9) Canti di carrettieri “alla cilentana” 11.25
10) Canto conviviale calitrano 4.34
11) Ninna nanna 6.57
12) Ninna nanna 3.30
13) Canto di San Silvestro 4.12
14) Salterello nuziale 1.37
15) Compianto funerario per Giuseppina 1.26
16) Lamentazione funebre per una madre 2.56
Leggi l'intervista su TelevideoRai
Le 'sei sorelle' di Roberto De Simone
Dopo 30 anni l’editore Squilibri
torna su una preziosa ricerca
di Laura Mandolesi Ferrini
“Vulesse arreventà no pesce d’oro
Dint’a no mare me jesse a mmenare
Venesse ‘o piscator’e mme pescasse
Dint’a na chianelluccia me mettesse
Venesse a nenna mia e me cumprasse
Dint’a na tielluccia me friesse
Nu’ me ne curo ca s’abbrucia o’ pesce
Basta che bbeco ‘a vocca ‘e nenna mia”
"Sono versi bellissimi…" commenta il maestro Roberto De Simone, musicista, musicologo, conoscitore e interprete della musica di tradizione orale campana. Il napoletano e cittadino del mondo Roberto De Simone non ha poi bisogno di presentazioni… ma questi versi? cosa sono veramente queste parole tanto cariche di significati da lasciare colmo di interrogativi chiunque vi si imbatta per la prima volta? L’editore Squilibri è tornato su questi canti che De Simone raccolse negli anni ’70, dando vita a un cofanetto di vinili allora registrati in studio (e quasi subito introvabili) e a un libro della Lato Side (“Canti e tradizioni popolari in Campania”, 1979), che conteneva i testi, una loro analisi e traduzione.
“Son Sei Sorelle”, è dunque il nuovo titolo del testo scritto 30 anni fa che Squilibri ha avuto la genialità di ridare alle stampe, assieme alle registrazioni, raccolte in un cofanetto di sette Cd, arricchito con materiali allora registrati sul campo e rimasti finora inediti.
Il titolo richiama un mito mariano legato alla Vergine Maria in Campania ed è raccontato dalla voce di una donna in apertura della raccolta musicale. Un mito che può suggerirci una chiave di lettura dei canti in questione, tanto lontani dal nostro quotidiano. E a mano a mano che ascoltiamo queste registrazioni, che cerchiamo di capirne i testi e ci addentriamo in questo universo, iniziamo a intuire la grandezza e la profondità della cultura che lo esprime, e di cui questa raccolta non rappresenta che la punta dell’iceberg. Ma proprio per questo, a oltre 30 anni di distanza, acquista significato e potenza. Perché rimane unica. Da allora infatti nulla di simile è stato più realizzato in Italia. Alla trasformazione dei rapporti sociali legati all’economia contadina e al conseguente sfaldarsi delle sue espressioni artistiche, in tutti questi anni non è corrisposta nel nostro Paese una ricerca sul campo tanto accurata. Rimane insomma, senza nostalgia e senza retorica, un monumento. Nell’introduzione al testo, con lo sguardo di 30 anni dopo, Roberto De Simone così sintetizza la perdita di questa cultura: “La Campania ha perso un bene inestimabile, un’anima culturale da considerarsi patrimonio dell’umanità, che viveva in accordo con la natura, nel rispetto degli alberi (…) e di quella collettività che malgrado lo sfruttamento di cui era vittima (…) mostrava una sua autonomia culturale (…)”. E ancora: “Se si è estinta la tradizione, non si è estinta quella classe di esclusi (…) amaramente convinti di non avere un’identità civile (…)”. Parole forti ma immediate, che danno nella loro sintesi, un efficace quadro della situazione presente in cui, ci piaccia o no, siamo coinvolti tutti. Contadini o non contadini.
Segue l’introduzione, un forte apparato critico che descrive gli strumenti musicali, le forme poetiche e le forme musicali. Ma come sempre, quando abbiamo a che fare con De Simone, al rigore scientifico fa eco la sensibilità del musicista. Quella sensibilità che ha suggerito, per esempio, la sistemazione dei materiali musicali in un ordine temporale che segue il ciclo rituale dell’anno contadino. Che anticamente iniziava a primavera. E la raccolta musicale si apre infatti con il Carnevale. Seguono poi i canti di lavoro, di potatura, le madonne “primaverili”, le “sei sorelle”, ma anche i canti dei carcerati, i canti di vendemmia, i canti funebri e le ninne nanne. Per chiudere con i canti natalizi. E’ questo tipo di attenzione, di cura e rispetto nei confronti di un mondo “altro” e dei suoi ritmi (di vita, non solo musicali e poetici), a guidarci lungo l’ascolto delle registrazioni, ad aiutarci a interpretare un verso o a “leggere” il significato di un canto. E se quel verso prima pieno di mistero, ci sarà poi svelato almeno in parte, vorrà dire che forse anche noi saremo in parte cambiati, dopo aver compiuto il magico percorso all’interno di quest’opera.
“SON SEI SORELLE, SON TUTTE BELLE”
D - Dopo 30 anni Lei è tornato a pubblicare questo lavoro con un nuovo titolo: “Son sei sorelle”. Nella prima traccia che dà inizio al cofanetto, una donna racconta il mito delle sei Madonne, sorelle fra loro… ma poi si scopre che sono sette….
- Ho scritto “Son sei sorelle” perché il canto dei bottari si riferisce alle sei sorelle e l’ho pubblicato anche, facendolo cantare nella Gatta Cenerentola: “Son sei sorelle, son tutte belle…”. Perché la settima è quella nera, sconosciuta, esclusa, non si sa chi sia. C’è una madonna in Campania, che sa come si chiama? La “Madonna ca nun se sape”. Quella che non si conosce. A Maronna ca nun se sape.
D - Ma appartiene alla leggenda o ha un suo culto locale?
- No, è venerata in Irpinia.
D - Ed è nera?
- Non si conosce niente. Non ha immagine. Alcuni l’hanno identificata con la Madonna del Terremoto. Che è apparsa e nessuno l’ha saputa descrivere. Una Madonna ca nun se sape. Ecco, e allora io ho detto, facciamo “Son sei sorelle”.
D - Tornando alla prima volta che uscì quest’opera, allora Lei fu il primo a portare in studio di incisione gli interpreti della tradizione popolare. Allora si registrava sul campo e si polemizzò sulla sua scelta. Mi sembra che ancora oggi la questione rimanga aperta.
- Allora i bravi signori comunisti mi mossero le critiche: “Ah! Non si fanno queste cose in sala registrazione!” Io ho ribadito: “Si fanno! Quando si trovano gli interpreti degni di essere fissati nel loro stile”. Per cui tutte quelle cose che dicevano in nome della morale antropologica erano nulle. Perché nessuno ha il coraggio di andare a vedere una festa per molti anni di seguito. La vedono una volta, fanno i safari per acquistare punteggio e avere posti universitari. Poi insegnano all’Università, scrivono in termini incomprensibili per cui anche quella è una cultura museale. Fate, producete, avete prodotto una cosa del genere? No. Io l’ho fatto e dopo 30 anni è ancora attuale ed è insostituibile. E fra 100 anni, se esisterà il mondo, sarà ancora attuale.
D – Forse perché con questa modalità di registrazione è stata data dignità a degli interpreti eccezionali.
- Certo, io dissi: “Vedete delle differenze? Voi non sentite la collettività, però avvertite che il cantore sta cantando come davanti alla collettività, con la stessa forza”. Quando li portavo in studio era nel giorno del rituale, e la registrazione diventava una parte della festa. Ecco, nell’opera sono ribadite tutte queste cose. Cioè la tradizione popolare è qualcosa di aristocratico. Non è vero che cantano tutti, ma sono solo i leader che cantano. Spariti i leader, oggi cantano tutti. Però non c’è più il maestro alle spalle che li guida.
D - Quindi questo lavoro potrebbe servire anche ad abbattere tanti stereotipi sulla musica popolare?
- Ma questi stereotipi sono tuttora vivi, tuttora esistenti nei baroni delle università che praticamente trattano ancora questa materia in luce positivistica. Luce letterario-positivistica, oppure tardo comunista, quando già il comunismo era diventato una cosa spappolata.
LA CULTURA DELLA TAMMORRA
D – Nell’introduzione alla nuova pubblicazione Lei parla di un cerchio che si chiude.
- Quella materia in questo senso non si troverà mai più. Quei leader della tradizione non hanno trasmesso il loro sapere. Di modo che oggi non c’è più una persona in grado di poter eseguire uno di quei canti facendone un’esecuzione unica, valida solo per quel momento, che poi una volta seguente può mutare ancora, inventando altre cose, ripescando nella memoria altri moduli, altre formule. Quel tipo di tradizione, la insegnavano i maestri, ma non ai neofiti, chiusi in una stanza: la insegnavano durante i rituali, e durante il rituale nessuno si permetteva di cantare se cantava uno dei maestri.
D - O di suonare la tammorra
- Tantomeno. Oggi non c’è nessuno in grado di suonarla. Per esempio, Antonio Torre, vero maestro della tammorra, non poteva trasmettere il grado o il tasso di interazione che lui aveva coi cantanti. Perché quello è un altro dato. Il cantante improvvisa e crea. L’esecutore deve adeguarsi alle invenzioni del cantante. Invece oggi molto spesso c’è una scarsissima interazione fra tamburo e voce. A parte che non c’è chi sa cantare. E così per il tamburo: si batte a tempo e basta. Ma Torre faceva altre cose, cioè aveva un grado di interazione e di partecipazione al canto tale da permettergli di condividere e seguire e appoggiare oppure addirittura di suggerire al cantante il momento in cui poteva ricominciare un’altra strofa. Insomma, è una cultura: la tradizione del tamburo era una tradizione di identità, per cui ogni luogo aveva il suo modo di suonare. Oggi questa è diventata una marmellata. Torre era il signore del tamburo che però agiva in tutta la zona paganese-nocerina ma magari in altre zone andava meno bene. Questo molti non lo sanno perché sono cose che si apprendono con gli anni.
D - Ma è così anche per la danza.
- Certo, perché ogni luogo aveva la sua identità, il suo stile. E i suoi linguaggi, completamente diversi gli uni dagli altri. E io ne parlo nel testo.
D - Dalle prime volte in cui Lei si è recato sul campo, cosa La ha aiutata a individuare e scegliere un esecutore piuttosto che un altro?
- Io sono un musicista. Sono un compositore per cui immediatamente riconosco un negro che canta un blues da uno di città che lo imita. E allora era immediato. E questo lo avvertivano i personaggi. Perché quando io li avvicinavo non disturbavo mai l’esecuzione. Loro capivano che io me ne intendevo e che li apprezzavo per quello che valevano. Non è che mi avvicinavo per il gusto del folklore esotico, ecco. Ma da professionista.
UN CAMMINO IDENTITARIO
D - E questo suo lavoro di ricerca come ha influenzato il suo modo di comporre musica?
- Ma, innanzitutto, sono stato attirato dalla ricerca in un certo senso per la delusione e la consapevolezza di vivere in un tempo dove avrei dovuto fare il concertista. Perché ero diplomato in pianoforte e mi avviavo alla carriera concertistica con ottimi risultati. E praticamente mi accorsi che non mi piaceva chi mi ascoltava. Io non potevo suonare per persone che non capivano quello che facevo. E per la composizione era la stessa cosa. Rifiutavo tutto quell’avvenirismo del dopoguerra della scuola di Darmstadt. Perché mi sentivo ancora napoletano e italiano. Seguace di un altro tipo di tradizione. Per cui mi interessavano come musicisti, li ascoltavo, li apprezzavo, ma io come compositore non avrei mai scritto roba del genere. Per non sentirmi accomunato a cose che non mi appartenevano. Allora mi sono indirizzato da un lato verso la scuola napoletana, il suo sviluppo, il suo luminoso cammino settecentesco, gli aspetti ottocenteschi, novecenteschi. E dicevo: se io un giorno farò il compositore lo farò tenendo presente che ho una mia identità alla quale debbo far riferimento, altrimenti non sarei mai spontaneo. Ciò che deve restare di me deve essere di identità. Così la ricerca sul campo fu motivata da questo: io faccio il musicista per un pubblico che non vive il concerto come momento di festa rituale ma come qualcosa di comprato e venduto. Mentre alle feste rituali io vedevo che la partecipazione dell’esecutore era completa, perché capiva che chi gli stava intorno comprendeva esattamente che cosa stesse facendo. Oggi chi c’è che lo capisce più? Nessuno. Oggi alle feste popolari manca questo pubblico. Sono diventate qualcosa di simile al concerto delle pop star.
GIOVANI, PELLEGRINAGGI E RIVOLUZIONE
D - Si riferisce ai giovani che invadono feste e pellegrinaggi?
- E’ il travisamento delle sinistre… I giovani sono usati.
D - Ma tanti di questi giovani che affollano le feste rituali poi fanno anche le veglie notturne, seguono i suonatori, insomma, si vede che in qualche modo anche loro amano questa cultura.
- Ma la amano, la amano diciamo in una maniera sbagliata perché non la sanno analizzare. Non seguono nessun indirizzo, sono solamente nella scia di: “…la cultura sono i giovani”. Il che non solo è un errore ma dà a questi giovani anche un’arroganza che appartiene tutta alla borghesia. Io quest’anno sono andato a Montemarano (AV), perché continuo a girare, voglio vedere, tastare il polso alle cose. E in una specie di rassegna che facevano per il Carnevale, ho visto anche i “bottari” di Macerata (Macerata Campania, CE). E ho visto che suonavano bene. E allora ho domandato al capogruppo: “Ma voi siete quelli che si sono lasciati andare alla musica leggera, che collaborano con i cantanti?”. E loro: “No, assolutamente. Per noi fare questa cosa è come andare a messa. Noi la facciamo con rispetto alla tradizione”. Infatti erano nello stile popolare, dove c’è innanzitutto questa violenza del cantare, del ballare, del dire e dell’agire, perché è il corpo stesso che partecipa all’anima. E’ una cultura dionisiaca, in cui il corpo si abbandona al delirio della mente che pesca nei ricordi ancestrali le proprie pulsioni. E allora, da questo punto di vista, i giovani queste cose non le sanno.
D - E secondo Lei avranno l’umiltà di andare a leggere il suo testo?
- Forse sì, chi avrà il coraggio di farlo, perché oltretutto le dico pure una cosa: questo cammino di introspezione è un cammino scomodo e difficile.
D – E faticoso?
- Faticoso. Perché non tutti sono propensi a sottoporsi alle fatiche dell’indagine. Su se stessi. O non sono in grado di farlo. Allora quando si dice “la cultura ai giovani”… ma prima di tutto, la cultura ai vecchi. Soprattutto quando i vecchi sono i politici, perché sono talmente ignoranti… Oppure a questo punto ci sarà una rivoluzione armata. Perché un nuovo rinascimento può esserci solo attraverso una rivoluzione.
D - Culturale?
- Speriamo. Speriamo. Però si corrono i pericoli della dittatura armata. Oggi come non mai. Perché questo governo è potente a livello finanziario. E’ vero che oramai tutto sta in mano alle finanze. Ma i modelli sono quelli dittatoriali. Il consumo, è già una dittatura. Quando poi è un consumo indotto, da un leader che è proprietario di tutta la nazione, lei praticamente può affermare che siamo ritornati a tempi feudali, dove chi la pensa diversamente viene messo da parte.
D - Perché siamo più sudditi che cittadini?
- No, siamo meno che sudditi, siamo infeudati. Legati al luogo dove si sta. I giovani napoletani, possono andare fuori, sì, ma non è che trovano lavoro meglio di qua. O lavorano al nero, o si danno alla camorra, o alla droga o allo spaccio di droga… resistono in pochi. E quei pochi praticamente soccombono. Allora, se io fossi giovane, me ne andrei da Napoli. Subito.
D - O dall’Italia?
- O forse anche dall’Italia.
D - Dove andrebbe?
- Ma non lo so. Forse in Spagna. In Spagna ho avvertito certi movimenti culturali interessanti.
LASCIARSI ANDARE ALL’IMMAGINAZIONE
D - E oggi, in questo contesto, come si attiva come compositore?
- Innanzitutto mi lascio andare a un lungo periodo di immaginazione. Prima di metter mano, perché voglio sapere che cosa voglio raccontare con i suoni. Perché non mi metto a fare la tammurriata sulla composizione. Se a volte si sente qualcosa “di riferimento” è perché c’è un linguaggio che sottintende altre cose. Magari di un contrasto in opposizione, diciamo in contaminazione. Devo sì studiare le vie, la storia, però sono un compositore del 2011. E non del mondo contadino. Sono stato educato da un lato alla rigorosità, al contrappunto, alle regole della scuola napoletana, e dall’altro lato al bel canto napoletano. Nello stesso tempo, vivo il mio momento storico. Il mio momento storico non può essere solamente quello circoscritto al mio vissuto materno, cioè della mia terra. Deve essere il vissuto della mia terra in dialogo con le altre forme. Per cui io non posso ignorare la scuola di Darmstadt o, parlando del ‘900, Stravinskij ecco, devo stare in continua interazione con questo mondo, altrimenti non sono un uomo che fa cultura, ma uno che fa campanilismo o folklore.
D - Adesso cosa sta componendo?
- Sto preparando una cosa mirata alla pubblicazione di un disco sulla identità della canzone napoletana. Ho fatto un’analisi dei linguaggi della canzone napoletana, tenendo presente la storia nella quale sono nati questi prodotti e in base a quali rapporti si sono sviluppati. Per cui è chiaro che nell’800 in parte derivavano dal rapporto con i suonatori girovaghi.
D – Suonatori girovaghi urbani?
- Sì, urbani per quanto riguarda la canzone, che è un fatto urbano, ma in parte vi sono influenze anche dai rapporti col melodramma. E questo anche durante il ‘700. In base a queste, diciamo, reminiscenze, la canzone ottocentesca era indirizzata da un lato alla tradizione dei cantori girovaghi, cioè i “posteggiatori”, dall’altro lato all’esecuzione di un popolo che cantava. Però con le sue regole. Insomma, il prodotto di un compositore di canzoni veniva trasformato in qualche cosa che aveva la propria identità stilistica. I materiali venivano quindi rielaborati e cantati. Però non erano documentati da alcuna forma di scrittura. Abbiamo a che fare con documenti scleroticamente riferiti alla scrittura del compositore. Ora si tratta di stabilire attraverso l’analisi della scrittura di questi brani, dato che non esistono registrazioni, quale oralità si può sottintendere. E osservare certi problemi riscontrati, attraverso le registrazioni, nel conflitto fra oralità e scrittura. Oppure confrontandolo con ciò che fanno i jazzisti, che si riferiscono alla tradizione e integrano il pezzettino scritto con le sigle delle armonie e le loro estemporanee elaborazioni. Si tratta di comporre tenendo presente tutte queste cose.
D - Lei ha sempre tenuto presenti queste cose nel suo lavoro.
- Certo. Per esempio la canzone, per quel che riguarda lo stile è morta col dopoguerra: dopo il ’50 non si può più parlare di canzone napoletana. Perché il pubblico al quale è diretta è un pubblico borghese da night. Per cui nascono queste canzoni fatte non più da musicisti professionisti nel senso ancora delle audizioni di Piedigrotta, indirizzate a un pubblico vero, ma a un pubblico diciamo audiovisivo, che stabilisce tutto attraverso il divismo. Tant’è vero che si attivarono nel festival, a cantare canzoni napoletane, anche cantanti non napoletani. Per me la canzone muore con Sergio Bruni. Muore con gli ultimi “posteggiatori”, di cui non esiste più traccia. Musicisti che non seguivano la battuta, ripetendola musealmente, ma la ricreavano secondo la propria tradizione. Ecco, questo disco racconterà un po’ queste cose.
Scrittore, compositore, musicologo e regista teatrale, Roberto De Simone ha realizzato studi fondamentali sulla tradizione, tra cui Carnevale si chiamava Vincenzo e Il segno di Virgilio.
Quasi cinquant'anni di ricerche sul campo in cui Roberto De Simone recupera i materiali di La tradizione in Campania, storico cofanetto con sette LP edito ne 1975 dalla Emi, affiancando nei sette cd un'equivalente mole di materiali inediti (...) registrati dal vivo durante le ultime feste popolari, quasi a raccontarne la disperata resistenza (...) Il volume pubblicato da Squilibri non è l'equivalente dei taccuini da viaggio di Alan Lomax ma una ricostruzione di quel piccolo mondo antico e rituale che oggi è soltanto evocato nelle dilaganti notti della taranta e delle tammurriate. Federico Vacalebre, Il mattino
Se fossimo in un mondo perfetto, questo lavoro di De Simone, che uscì trent'anni fa in vinile e che oggi viene ripubblicato con materiale inedito in un cofanetto delle edizioni Squilibri (...), sarebbe una specie di Bibbia per musicanti di ogni latitudine. E' un materiale di rara potenza ritmica e rituale, anche se spesso realizzato solo con voci e percussioni. Sono canti e ritmi che hanno la forza del rock e che i rapper nostrani farebbero bene a imparare, prima di scimmiottare i modelli americani. Gino Castaldo, La repubblica
Dopo trentun'anni torna alla luce il tesoro di musica popolare che l'etnomusicologo e compositore napoletano aveva pubblicato per la prima volta nel 1979. (...) Stavolta la documentazione si moltiplica: un cofanetto con sette cd (tanti gli inediti) e un libro che racconta le ricerche sul campo, le caratteristiche di quei canti e dei loro esecutori, nonché le tipologie dei diversi strumenti. Son sei sorelle può essere stimata come l'opera omnia di De Simone. Gianni Valentino, Il Venerdì di Repubblica
Un tuffo nel passato della musica più autentica che ci restituisce un mondo distrutto come un genocidio di pasoliniana memoria. Un vero e proprio viaggio che entusiasma e commuove per la ricchezza struggente delle voci, dei suoni, dei protagonisti di un'epoca che adesso appare leggendaria (...) A De Simone dobbiamo (...) un anticonformismo strutturale che guarda le cose del popolo e della musica con amore e insieme con la meticolosa passione del grande artigiano che sta sulle cose, (...) che sa che passato e futuro stanno insieme e l'uno si nutre dell'altro e senza l'uno non c'è l'altro. Michele Fumagallo, Alias
Operazione tosta del più grande affabulatore campano, dove la tradizione palpita a ritmo di tamburello, fra lamentatrici funebri e autenticità espressiva, in rituali e canti registrati con i veri protagonisti della storia. Marinella Venegoni, La Stampa
Volumone più cofanetto di ben sette cd, ciascuno della durata di circa 80 minuti. Bastano i numeri per dare l'idea di un'opera colossale, come colossale rischiava di essere la perdita di un patrimonio impossibile da stimare. (...) Al centro la sacerdotale sacralità di quei virtuosi (...) interpreti vicari di un sapere diffuso perché "per partecipare a una festa bisogna essere coro e non protagonisti". Il musicologo si scaglia sulle manifestazioni senz'anima delle Pro Loco (...), sulla paccottiglia radical di chi scimiotta impudicamente il mondo contadino, orbi come ormai siamo di quell'antica aristocrazia della gestualità e della sapienza che connotavano le classi rurali (...) rimaste oggi afone e impotenti, illusoriamente appiattite sul mito della modernità e su un'omologazione che tutto ha asfaltato. Gianluca Veltri, Il Mucchio Selvaggio
Una pietra miliare della ricerca antropologica ed etnomusicologica nel nostro Paese (...) in un sontuoso volume a cui è allegato un cofanetto con ben sette cd audio (...) Il volume contiene tutte le trascrizioni e le traduzioni dei canti, un puntuale apparato che interpreta e contestualizza i materiali sonori, e un lucido e commovente saggio dell'autore, che descrive il volume come "la celebrazione dell'assenza" di una tradizione antichissima che "si è spenta di colpo, di botto, come colpita al cuore da un infarto culturale". Vincenzo Santoro, Il Paese nuovo
un patrimonio straordinario per varietà e complessità delle forme, per la commovente verità restituita dalla registrazione sul campo, per l'emozione insita in una storia tramontata per sempre, che non è e non sarà mai più. Testi (...), voci, canti e musiche (per un totale di quasi 9 ore di registrazioni!), un'analisi accurata delle forme musicale e degli strumenti documentano la ricchezza di quell'universo perduto: sono fronne, canti a figliola, tammurriate, strambotti, tarantelle, persino insospettabili rari canti politici e sociali che sconvolgono nel profondo all'ascolto, costringono a mantenere uno sguardo critico verso il contemporaneo imprensentabile che viviamo. Luca Ferrari, folkgeneticamentemodificato.blogspot.com
Tammurriate, miserere, canti di potatura o di carnevale, stramobotti, leggende e tarantelle interpretati in tutta la loro essenzialità: voci, ritmo, nessun abbellimento. Registrazioni scarne dove si sente la fatica del lavoro, la dignità e la miseria. Stefano Miliani, L'Unità
un'edizione che si può tranquillamente definire "di lusso". Un libro impeccabile, con le trascrizioni dei testi e ampi commenti e, soprattutto, numerosi inediti che dilatano il tempo di ascolto fino a quasi nove ore. Nove, piacevolissime ore da godere un po' per giorno, accompagnando magari l'ascolto con la lettura dei testi in parallelo e qualche pausa di meditazione. Tito Saffioti, Folk Bulletin
E proprio per capire questi cambiamenti è opportuno mettere a confronto le introduzioni che accompagnano l' edizione del 1979 con quella del 2010.Nella prima si percepisce l'entusiasmo per l'importanza del materiale raccolto, per la vitalità della tradizione colta ancora nel pieno della sua funzione, per i canti espressione di una profonda tensione interiore e proprio per questo irripetibili. Nell'introduzione di Son sei sorelle, De Simone è consapevole di aver documentato un mondo che rapidamente si è dissolto, dove si è persa quell'interiorità religiosa che era alla base del tessuto comunicativo in cui si riconosceva tutta la comunità e che dava vita ad espressioni e manifestazioni proprie. Tiziana Oppizzi e Claudio Piccoli, Il cantastorie
è un vero tesoro del campo etno-musicologico, che deve la sua eccezionalità ad anni di paziente ma ostinata ricerca (...) rispetto a trentuno anni fa (...) ora il materiale è più che raddoppiato in un eccellente compendio di canti devozionali alla Madonna, processioni difujenti, canti a distesa, fronne, canzone di Zeza, novene, rosari, tarantelle, 'ndrezzata, canti a figliola, tammurriate, strambotti, lamentazioni funebri e ogni altra forma musicale che riporta alle campagne del vesuviano, ai monti dell'Irpinia e del salernitano (...) Sfogliando le preziose testimonianze e ascoltando i ritmi, che talvolta diventano ossessivi, si ha quasi l'impressione si entrare nelle viscere di una terra che nasconde molti misteri. Franco Insardà, Liberal
Certo è che il portato di questa ricerca veicolata oggi con queste parole, che nonostante i propositi dell'autore rivelano il desiderio di rappresentare la cultura contadina come bene primario inviolabile e "buono" in un'opposizione talvolta quasi intransigente alla cultura consumistica, industriale e "cattiva", è indubbio oggi più che 30 anni fa. De Simone fa suo il principio critico di ispirazione "baumaniana" secondo il quale vivere non significa più esistere ma consumare, un imperativo attualmente più spiazzante e vero perché ha dimostrato i suoi effetti perversi sulle generazioni di giovani, figli di quelli che un tempo si chiamavano proletari (...). Senza privilegi, dice in sostanza De Simone, questi ragazzi diventano facile preda della camorra perché privati della loro cultura millenaria e ridotti alla frustrazione di una vita che non esiste in sé ma solo in rapporto agli status symbol, agli oggetti che si posseggono. Emerge così una necessità etica nel rimettere mano all'antica ricerca. Simona Frasca, America Oggi/La repubblica (ed. New York)
Il titolo di questa autentica summa desimoniana nasce dalla leggenda delle sette sorelle, "sei belle e una brutta e nera" rifugiatosi poi a Montevergine dove ebbe inizio il culto della "mamma Schiavona": una devozione scandita a colpi di tammorra. (...) questo tesoro che De Simone ha portato in salvo prima che sulla terra dei padri si stendesse, sinistra, l'ombra delle Vele di Scampia, metafora del disastro socioculturale di Napoli e del suo territorio. Gino L. Di Mitri, La Gazzetta del Mezzogiorno
una delle più straordinarie opere editorial-discografiche degli ultimi anni (...) De Simone coniuga la più lucida e radicale critica del genocidio culturale del nostro mondo contadino sub specie sonoris con la ricostruzione campana di quel mondo "zodiacale" e musicale, già descritto a suo tempo dall'etnomusicologo e mitologo tedesco Marius Schneider. Ed è proprio questo il nome ricorrente e tutelare di De Simone che, nelle parole conclusive di questa summa sonora del lavoro ben speso di una vita, viene infine nominato per aver rilevato "il suono giusto, quel suono in risonanza con il cosmo (...) del nostro vivere, del nostro pensare in consonanza con la natura, con le nostre ventiquattro ore quotidiane divise tra il beat del giorno e l'off beat del sognare". Antonello Colimberti, Europa
La grandezza dell'opera è da ricondurre alla sensibilità di De Simone, dotato di un'ineguagliabile coscienza del linguaggio della tradizione (...) La raccolta di De Simone è "un documento/monumento" per dirla con Le Goff: è un'esperienza unica riascoltare tanti inarrivabili musicisti e cantatori, personalità che con sole castagnette, tammorra e voce "mettono in moto una macchina sonora irresistibile" per usare parole di Maurizio Agamennone. Ciro De Rosa, Il giornale della musica
Da questi CD emergono brani di rara intensità, eseguiti da cantatori e sonatori che avevan profonda conoscenza della loro tradizione, per averla vissuta tutta una vita nel suo contesto originario, al di fuori di qualsiasi intenzione spettacolare o tentazione di protagonismo. Cantatori e suonatori il cui ruolo era riconosciuto dalla comunità per l'altissimo livello che essi avevano raggiunto (...) Musica rurale eseguita nei momenti e nei contesti prescritti e non occasionalmente, secondo il capriccio dell'interprete. E' questo il segno dell'autenticità del canto, sigillo di verità di un'emozione espressa tramite una ritualità e una sacralità che purtroppo scompaiono con la morte di questi grandi esecutori. Fabrizio Giuffrida, Mondomix
Alla trasformazione dei rapporti sociali legati all'economia contadina e al conseguente sfaldarsi delle sue espressioni artistiche, in tutti questi anni non è corrisposta nel nostro Paese una ricerca sul campo tanto accurata. Rimane insomma, senza nostalgia e senza retorica, un monumento. (...) Ma come sempre, quando abbiamo a che fare con De Simone, al rigore scientifico fa eco la sensibilità del musicista. Quella sensibilità che ha suggerito, per esempio, la sistemazione dei materiali musicali in un ordine temporale che segue il ciclo rituale dell'anno contadino. Che anticamente iniziava a primavera. E la raccolta musicale si apre infatti con il Carnevale. Seguono poi i canti di lavoro, di potatura, le madonne "primaverili", le "sei sorelle", ma anche i canti dei carcerati, i canti di vendemmia, i canti funebri e le ninne nanne. Per chiudere con i canti natalizi. E' questo tipo di attenzione, di cura e rispetto nei confronti di un mondo "altro" e dei suoi ritmi (di vita, non solo musicali e poetici), a guidarci lungo l'ascolto delle registrazioni, ad aiutarci a interpretare un verso o a "leggere" il significato di un canto. Laura Mandolesi Ferrini, Televideo RAI
una strepitosa antologia sonora (...), l'ultima testimonianza di una cultura secolare, gli struggenti segnali sonori del passato lanciati nel futuro. VivaVerdi
La più filologia, etnografica, psichedelica maratona sonora degli ultimi anni. (...) una cosmogonia di Madonne, braccianti e fujenti che racconta il cuore e l'anima di questa metropoli rurale, immaginaria e sconnessa, che sono i paesi vesuviani e il Cilento (...) I sette cd, completati da da un songbook, compongono un unico, poderoso brano corale. Fatto di suoni rari, che in pochi hanno la possibilità di ascoltare dal vivo anche solo una volta nella vita, perché nascono e muoiono nei tinelli, nelle piazze e nei sagrati delle chiese. Riccardo Piaggio, Il sole 24 ore-Domenicale
Oggi Roberto De Simone è riconosciuto universalmente come compositore, musicologo insigne, regista operistico ammirato per i suoi allestimenti (...), intellettuale capace di intuizioni immaginifiche e sempre personalissime. Quasi si tende a dimenticare la sua fondamentale esperienza di pionieristico ricercatore delle tradizioni musicali campane e poi gli anni gloriosi e rivoluzionari della Nuova Compagnia di Canto Popolare (dal 1967 al 1974) cui sarebbe seguito nel 1976 il clamoroso successo di La gatta cenerentola. E con essi la linfa fresca innestata allora nel tronco un po' inaridito del canto tradizionale napoletano, che avrebbe dato frutti fecondi nel campo più colto come e in quello più popolare. (...) A ricordarci il percorso etnomusicologico di De Simone è arrivata la raccolta Son sei sorelle: una pietra miliare. Paola Molfino, Amadeus